Iran, una minaccia per il Golfo

Un tentato dirottamento e un attacco con un drone suicida. Azioni dirette a destabilizzare l’area del Golfo con un chiaro mandante, l’Iran. Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele non hanno dubbi: dietro ai recenti attacchi ad alcune navi nel Golfo di Oman c’è il regime di Teheran (Repubblica). Una escalation che coincide con l’insediamento del nuovo presidente iraniano Ebrahim Raisi, che oggi giura davanti al parlamento e presenta il suo governo. Un momento a cui parteciperà anche un funzionario europeo. “L’Ue va dal macellaio di Teheran”, commenta il Foglio, condannando la decisione di Bruxelles e riportando la dura critica di Israele a questa scelta definita “sconcertante”. Dietro alla presenza Ue, ci sarebbe la volontà di tenere aperto il negoziato sul nucleare. Una trattativa, l’analisi del Sole 24 Ore, che sembra sempre meno possibile a causa delle minacce iraniane nel Golfo. Sulla stessa linea, la lettura dell’analista Moisés Naím che parlando con Repubblica, sottolinea che la strada per l’accordo “è in salita. Anche se ne hanno tutti bisogno. Gli iraniani soprattutto perché nel Paese manca tutto: acqua, cibo, elettricità. La situazione è davvero precaria. Per ora ha giovato ai conservatori, populisti e demagoghi. Ma per quanto ancora? Di sicuro non può esserci accordo senza gli americani. Devono assolutamente essere al tavolo di Vienna”, afferma Naím.

La mano dietro gli attacchi iraniani. A guidare le azioni nel Golfo – una delle quali contro una nave di proprietà di un magnate israeliano – sono stati il comandante delle forze aeree dei Pasdaran, Amir Ali Hajezda, e il capo della sezione che si occupa di droni, Saeed Ara Jani. Lo ha spiegato ai rappresentanti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz. Saeed Ara Jani in particolare “fornisce i rifornimenti, l’addestramento, i piani ed è responsabile di molti atti di terrorismo nella regione”, ha spiegato Gantz, presentando le informazioni raccolte dall’intelligence d’Israele (Sole 24 Ore e Avvenire).

Libano in rivolta. A distanza di un anno dall’esplosione al porto di Beirut, molto poco si sa sulle responsabilità dietro all’incidente. E in un Libano nel baratro, i cittadini chiedono verità sulla strage che ha causato 218 morti, raccontano oggi La Stampa e Giornale, parlando delle manifestazioni contro il governo di questi giorni. Intanto c’è stato un cambio della guardia al comando del contingente italiano schierato proprio in Libano nell’ambito della missione Onu Unifil a ridosso della Linea Blu di demarcazione con Israele. La Brigata alpina “Taurinense”, riporta in una breve Avvenire, ha ceduto il comando del contingente alla Brigata aeromobile “Friuli”. Alla missione Unifil Israele chiede di intervenire per fermare minacce come quella di ieri contro il suo territorio, quando dal sud del Libano sono partiti tre razzi, caduti senza fare danni. Ma comunque un pericolo.

Uno Stato. “Lo Stato unico mette in discussione il sogno nazionale palestinese e quello ebraico israeliano. I due Stati, israeliano e palestinese, restano la soluzione più rispettosa delle rispettive identità e del binomio democrazia-ebraismo di Israele. Forse non l’unica. La strada è comunque molto più tortuosa di qualsiasi “roadmap” tracciata a tavolino a Washington o a Bruxelles. Sta a israeliani e palestinesi trovarla. Dall’esterno possiamo aiutarli. Ma con modestia”, è quanto sostiene la firma de La Stampa Stefano Stefanini in un pezzo dedicato ai rapporti tra israeliani e palestinesi. Il titolo ad effetto dell’articolo richiama le distorte tesi palestinesi che accusano Israele di apartheid. Dall’altra parte, si spiega che in sostanza i giovani palestinesi preferirebbero uno stato unico sotto il governo di Gerusalemme piuttosto che uno stato autonomo. Sul Fatto Quotidiano si torna invece sulla vicenda delle abitazioni di Sheikh Jarrah, spiegando che lo sfratto delle famiglie palestinesi sembra sempre più improbabile viste le posizioni dell’Alta Corte e dello stesso governo israeliano.

La parola razza. Continua la discussione sul termine “razza” su Repubblica e sul suo uso all’interno dell’ordinamento italiano, a partire dall’articolo 3 della Costituzione. Per Corrado Augias il termine è da mantenere perché “Non sta lì per incitare al razzismo, al contrario per indicarne il pericolo, perché le razze non esistono ma il razzismo sì”.

Segnalibro. Sul Corriere della Sera Claudio Magris ricorda la figura di Roberto Finzi, grande studioso di economia e di storia economica, scomparso un anno fa. E soprattutto riflette sul suo libro pubblicato postumo Liberaci Barabba! Un sottile progetto politico (I libri di Emil). “In questo affascinante libretto — che unisce la precisione della ricerca con l’analisi linguistica ed espressiva di tante raffigurazioni, autoraffigurazioni o denigrazioni dell’ebreo — Finzi si sofferma su Barabba, ladrone o bandito. – scrive Magris – Quando Pilato, dopo il processo a Gesù, chiede alla folla chi, tra Barabba e Gesù, condannati a morte, possa essere graziato, la folla risponde «Barabba!» e Gesù viene messo a morte. Barabba ha un ruolo speciale nella storia dell’antisemitismo, nella definizione del popolo ebraico quale ‘deicida’. Con il rigore dello studioso e la freschezza del narratore, Finzi sviscera a fondo la matassa in cui, nei secoli, si è avvolta questa storia, nelle versioni e interpretazioni più diverse e contraddittorie”.

Le olimpiadi di chi la spara più grossa. Così sul Fatto Quotidiano Antonio Padellaro risponde a chi, come Giorgio Agamben su La Stampa, ha riproposto la delirante tesi che ci siano delle similitudini tra l’Italia delle leggi razziste e quella del green pass. “Un’escalation di paragoni insensati – scrive Padellaro – che in assenza di autocontrollo verbale ha già indotto qualcuno fuori di testa (nelle piazze, non ancora nelle accademie) a tirare in ballo Auschwitz e la soluzione finale. Ha detto Liliana Segre che ‘il paragone vaccini-Shoah’ dei no green pass ‘è un misto di ignoranza e cattivo gusto’: E tanto basta”.

Daniel Reichel