Dolgopyat e le aliyot dall’Est
Artem Dolgopyat, il ginnasta che con le Olimpiadi di Tokyo 2020 ha portato in Israele la seconda medaglia oro, è cittadino israeliano da quando aveva 12 anni. Egli ha frequentato scuole di lingua ebraica ed ha servito nello Tsahal, adesso raggiunto il traguardo olimpico è diventato una sorta di eroe nazionale. Eppure Dolgopyat non è ebreo secondo la halakhah, perché soltanto la nonna paterna era ebrea, e di conseguenza non potrà sposarsi dentro il paese con la propria compagna. Come altri, il leader del partito religioso Shas Arye Deri ha affermato – leggiamo in queste pagine – “che aver vinto una medaglia non lo rende ebreo”. “Una direzione simile”, continua Deri, “sarebbe la fine di Israele”.
Vera la prima parte, ma Deri dimentica forse che lo stato ebraico è nato con il sionismo (laico in origine), ed è cresciuto proprio grazie alla legge del ritorno. Le aliyot provenienti dall’ex blocco sovietico sono da decenni quelle più consistenti e migliaia di israeliani si trovano così nella stessa situazione di Dolgopyat. Paradossalmente questa parte di popolazione non era percepita neppure nei propri luoghi ancestrali come pienamente ucraina o russa è spesso ha subito/subisce quell’antisemitismo di sempre che non opera grandi distinzioni. La “scelta” da parte dei propri genitori o nonni di abbandonare l’ebraismo e assimilarsi è stata causata il più delle volte dall’ateismo di stato, dalla repressione e disconoscimento del regime nei confronti degli ebrei e dalla medesima paura dell’antisemitismo da parte dei propri concittadini. L’aliyah dunque per i vari Dolgopyat è diventata forse la sola occasione per ritornare alle proprie origini, ricongiungersi a quella strada lasciata momentaneamente interrotta dai propri predecessori, il (re)inizio del proprio ebraismo.
Francesco Moises Bassano
(6 agosto 2021)