Dossier Padova ebraica – rav Locci:
“Essere Comunità, il nostro valore”

A Padova il rabbino è istituzione di riferimento di una collettività più ampia della sola Comunità ebraica. “Rabbino di Padova”, la locuzione che ne designa il ruolo da secoli. Il romano rav Adolfo Locci, in città dal dicembre del 1998, è l’ultimo anello di questa catena. Oltre vent’anni di lavoro con vari motivi di soddisfazione all’attivo. “Tutti i servizi religiosi sono garantiti, tefillot al Tempio di Shabbat e in tutte le feste, mikwè del quale usufruiscono anche signore da altre Comunità, un Kolel ‘Od Mevakshè Hashem’ per adulti dove durante la settimana si studia Talmud, Torah Halakhah, il Talmud Torah per i giovani fino all’età del Bar Mitzvah, la kasherut. Ogni casella è ben occupata” ci spiega, ricordando come la sua carriera abbia preso avvio a Roma come rabbino officiante, insegnante a scuola, responsabile dei servizi cultuali all’Ufficio Rabbinico e collaboratore del rav Elio Toaff z.tz.l. “Non mi piace parlare della Comunità di Padova a confronto con le altre, come se ci fosse una sorta di competizione. La differenza tra una Comunità e un’altra, almeno per la mia esperienza anche in seno al Consiglio e alla Giunta UCEI, sta nella stabile presenza rabbinica. Quando c’è, anche se in scala ridotta per i numeri decisamente diversi tra piccole e grandi realtà, nella Comunità si può comunque vivere una vita ebraica. Come nelle altre, decisivo è il senso di appartenenza e di partecipazione alla vita comunitaria distribuito a vari livelli che dipende, soprattutto, da come le famiglie hanno educato i proprio figli. La Comunità di Padova è piccola, ma con una speciale forma di tenacia. Lo dimostrano il numero degli iscritti, rimasto più o meno costante dal dopoguerra ad oggi. E questo – riflette – nonostante la migrazione di giovani verso Israele, altri paesi esteri o altre città italiane”.
Molte sfide minacciano demograficamente l’ebraismo contemporaneo. Anche a Padova, come nel resto dell’Italia ebraica, la situazione non è delle più rosee. “Ma faremo di tutto per durare il più a lungo possibile, per assicurare continuità alle generazioni”, afferma rav Locci. Una ventata di positività l’ha portata anche l’ultimo anno con “varie nascite, Bar Mitzvah, una milah”. Grande appassionato di canti sinagogali, è l’anima di un progetto di raccolta di melodie della Tradizione che ha avuto come esito due cd (Shirè Miqdash-i canti del Tempio “da Roma a Padova”; Shirè Miqdash-i canti del Tempio “…e diverranno un unico essere”) e vari concerti rivolti a un pubblico per la gran parte non ebraico. Da Lechà Dodì a Ani Maamin, da Yafutzu a Bachurim, da Barukh habba e Eshtekhà, da Kol Sason alla Birkht Kohanim: un itinerario suggestivo, in un ponte ideale tra la città in cui è nato e quella in cui opera da oltre quattro lustri. “La passione per la musica e il canto – raccontava in occasione dell’uscita del primo cd – fanno da sempre parte del mio bagaglio culturale e spirituale. Ho amato da subito la tevah, il pulpito dal quale il chazan, l’officiante della sinagoga, canta le preghiere; vi sono salito per la prima volta a 13 anni per il mio bar mitzvah e da allora non ne sono più sceso. Ricordo il detto di un mio maestro che diceva: ‘Se il rabbino è la mente di una comunità, il chazan ne è il cuore’. In effetti, questo detto può essere rappresentativo del mio personale percorso”. La chazanut non è un elemento secondario, è sempre “parte inscindibile della vita comunitaria”, un patrimonio da curare “con passione ed esattezza”.
Tra le iniziative di confronto con l’esterno più riuscite, cita il ciclo di incontri animato dal gruppo interreligioso di Studio e Ricerca sull’Ebraismo diretto da Lucia Poli. Occasioni di arricchimento intellettuale in cui, spiega rav Locci, “rabbini, studiosi e storici ebrei sono chiamati a parlare, ad esprimersi su diversi ambiti dello scibile”. Sempre, prosegue, “abbiamo cercato un filo comune: con la diocesi, ma anche con le altre istituzioni con le quali abbiamo stretti rapporti”. Dal Comune all’Università: il sostegno e la collaborazione, commenta, “sono sempre stati tangibili”. Con la speranza che anche il Museo della Padova ebraica, oltre a spazio di servizio interno alla Comunità, possa essere polo di divulgazione culturale e rivelarsi sempre più un luogo di “vitalità nel segno dell’identità”.
La quotidianità del rav è scandita da vari momenti: “lavoro d’ufficio”, ma soprattutto “lezioni” dedicate a varie fasce d’età. Con almeno un incontro settimanale riservato ai “post Bar e Bat Mitzvah, che altrimenti rischiamo di perdere per strada”. Incontri di persona in aule di studio. Ma, in tempo di pandemia, “rigorosamente” online. “Una sfida per tutti. Ma la cosa non è stata così nuova e stravolgente, almeno a livello personale. Credo di essere stato uno dei primi rabbini, più di 10 anni fa, a muovermi in questo campo grazie all’aiuto di alcuni amici romani che organizzavano settimanalmente questi incontri online. Ho sempre avuto la sensazione che la rete potesse essere una risorsa, se usata correttamente, non trascurabile anche per le nostre Comunità, soprattutto quelle piccole”.
Numerosi i progetti che guardano al futuro. “Ma la mia più grande preoccupazione adesso è quella di provare a trasmettere il valore dell’essere Comunità alla generazione di giovani presenti a Padova, quella generazione che dovrà occuparsene negli anni a venire. Lo devo a tutte le persone che si sono spese per questo negli anni precedenti la mia venuta a Padova e durante il mio rabbinato e anche, perché no, a me stesso per avere dedicato con tati sacrifici me stesso, e non solo, in questo periodo”.
Aggiunge il rav: “Non sono mai stato una persona che ha pensato di se stesso ‘dopo di me il diluvio’, anzi guardando alla storia dei rabbini padovani (Yehuda Mintz, Meir Katzenellenbogen, Moshè David Valle, Moshe Chayym Luzzatto, Shemuel David Luzzatto), scherzando mi vien da dire che sono forse io ‘il diluvio’ rispetto alla loro grandezza”.

Dossier Pagine Ebraiche – Agosto 2021