Storie di Libia – Raphael Luzon

Raphael, ebreo di Libia, dedica la sua intervista alla memoria della famiglia dello zio massacrata da un ufficiale libico. È la prima intervista in cui abbiamo la testimonianza della storia di ebrei di Libia che risiedevano a Bengasi invece che a Tripoli. Nel 1925 il nonno si era trasferito a Bengasi, scappato da Misurata, quando i libici combatterono contro gli italiani che li avevano invasi. Il nonno, poi, scappò da Misurata perché`era ricercato dagli italiani in quanto era tra i combattenti (assieme ad altri ebrei misuratini) di Ramadan Swehli e Omar El Mukhtar, i leader della resistenza libica di allora. La sua famiglia era molto religiosa e osservante e viveva molto agiatamente. La madre si occupava di beneficienza e di aiutare le spose, soprattutto le meno abbienti, nel rituale del matrimonio. Il padre era un imprenditore affermato nel mondo dei medicinali e della cosmetica e serviva tutta la Cirenaica. Raphael (a Bengasi lo chiamavano Faelino) racconta di un’infanzia felice e spiega che la sua famiglia negli anni ’40 era al massimo fulgore. Al tempo del pogrom nel 1967 vivevano a Bengasi circa 230 persone che frequentavano le sinagoghe in una comunità ebraica molto ben organizzata. Rispetto a Tripoli dove antisemitismo e intolleranza erano i sentimenti più forti della popolazione locale contro gli ebrei, a Bengasi gli ebrei vivevano in completo accordo con arabi e cristiani. Essere cittadini dhimmi aveva un significato ben diverso a Bengasi: non potevano partecipare alle elezioni né avere cariche politiche o lavorare nella pubblica amministrazione ma potevano aprire autonomamente una attività commerciale e se uscivano dal paese non erano costretti a lasciare un ostaggio. Diversi ebrei si laurearono a Bengasi e in generale la popolazione del luogo era molto più intellettuale rispetto alla tripolina. Raphael andava a scuola in carrozza e al ritorno, dopo mangiato, studiava la Torah con maestri molto rigidi che non lesinavano bacchettate sulle dita, poi svolgeva i compiti e infine andava a dormire. A Bengasi la televisione non c’era. Le risse avvenivano ma non legate a motivi religiosi. Raphael aveva 13 anni al tempo del pogrom. Da alcuni mesi molta gente raccontava che stessero succedendo brutte cose in Libia e gli amici esortavano il padre ad uscire dalla Libia per andare in vacanza. Un giorno la loro badante li salutò in lacrime dicendo che sperava che quello che aveva sentito non fosse vero. Era giorno di esami quando sentirono urla in strada, “sgozza l’ebreo”, e il preside raccolse tutti i ragazzi ebrei e cercò di contattare genitori per farli venire a prendere. Suo padre non rispondeva in quel momento perché i suoi magazzini erano stati assaltati.
Così i preti misero fuori dalla porta i 50 bambini ebrei di 12/13 anni che frequentavano la scuola. Alcuni vicini di casa, musulmani, fermarono chi voleva bruciare le sinagoghe per rispetto del fatto che fosse un luogo di preghiera ma nessuno impedì loro di bruciare i negozi. Riuscì ad arrivare a casa, nel frattempo i magazzini di cosmetici e farmaci stavano prendendo fuoco. Tutti si distesero a terra con pezze bagnate sul viso per cercare di non respirare quell’odore così forte. Le donne piangevano e pregavano. Erano paralizzati dalla paura nel sentire i colpi violenti contro il portone finché non accorse in loro aiuto la guardia antisommossa che con un camion portò e nascose in caserma circa 240 ebrei. Ma la folla tentò di assalirli e i poliziotti impauriti decisero di trasferirli in un campo militare dove vennero trattati con umanità, il cibo non mancava e poterono dormire su letti da campo. Alcuni clienti locali li vennero a trovare per pagare al padre i loro debiti. Dopo 20 giorni gli ufficiali dissero che potevano rientrare in città ma non potevano garantire per la loro incolumità: li invitarono così a lasciare il paese. E così tornarono in Italia, come profughi, in aereo. Raphael ritiene che sia stato traumatico essere cacciato dal paese in cui viveva in armonia dopo la millenaria presenza degli ebrei in Libia e che fosse sconvolgente che alcune persone che frequentavano abitualmente come clienti i loro magazzini fossero anche tra la folla urlante che poi li incendiarono. Arrivato in Italia almeno per il periodo della sua gioventù non ripensò alla Libia. Successivamente però ha avuto rapporti con il regime di Gheddafi per perorare i diritti degli ebrei di Libia. Non per richiedere i danni ma per avere il passaporto libico e tornare a godere dello status di cui godeva prima del 1967. Ci chiede perché non dovremmo poterci tornare. Il paese in cui sono stati commessi il numero maggiore di crimini contro gli ebrei non è stato la Libia ma la Germania e in primo luogo Berlino. Dopo la Shoah 32mila ebrei sono tornati a viverci e così anche altri 30mila ebrei israeliani. Se gli ebrei sono tornati a Berlino o a Roma, dice Luzon, perché non in Libia dove il numero di morti non arriva a 300 persone.
Raphael racconta del suo incontro con Gheddafi che gli chiedeva cosa volesse: lui rispose che voleva giustizia e poter fare una cerimonia funebre per i morti nelle fosse comuni. Gheddafi impose il limite che le dieci persone e il rabbino non avessero passaporto israeliano. La seconda richiesta riguardava la targa da mettere come memoriale dove ora sono edificate le tre torri. Infine la terza richiesta era di poter organizzare un dialogo interculturale tra musulmani ed ebrei libici all’interno di una ex sinagoga. Ma Gheddafi venne ucciso e le richieste non poterono essere esaudite. Raphael racconta di come intervenne per evitare che chi scrive fosse ucciso per le sue incursioni per salvare la sinagoga. Dal 2008 Raphael soffre per una patologia. Però, nonostante tutte le difficoltà, non ha mai smesso di lottare per la difesa dei diritti degli ebrei di Libia. Tante volte ha chiesto di essere coinvolto per il dialogo con i libici. Secondo lui la Libia può cambiare e si candiderebbe volentieri per partecipare alla vita politica di quel paese, spinto da molti libici. Raphael ritiene che combattere contro l’ingiustizia non sia mai una battaglia persa anche se si otterranno risultati dopo tantissimo tempo. Se un ebreo entrasse nel governo della Libia questo dimostrerebbe che la Libia rispetta la giustizia e che il paese è finalmente emancipato. Si sente a casa a Londra dove vive, si sente a casa in Israele come ogni ebreo, in Libia come terra natia, si sente a casa in Italia culturalmente e socialmente. Trova che essere scacciati abbia permesso agli ebrei di Libia di poter studiare e migliorare invece che relegarsi ad un futuro da bottegai, il massimo possibile per un cittadino dhimmi. Ritiene che ci vorrebbe maggiore unità tra gli ebrei di Libia, prendendo esempio dalle comunità ebraiche marocchine ben organizzate ovunque. Pensa che la pandemia abbia unito tutto il mondo e ci lasci una grande lezione. Ritiene che i libici abbiano avuto 40 anni di lavaggio del cervello e per questo odiano gli ebrei.

(Nell’immagine grande Raphael Luzon assieme a ministri israeliani, un ministro libico, il vice Presidente della Knesset, uomini politici egiziani e iracheni a un convegno a Rodi nel cinquentennale dell’espulsione dalla Libia – Giugno 2007)

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(9 agosto 2021)