La parola “razza”, perché mantenerla

Da qualche tempo su “Repubblica” si dibatte intorno a una proposta suggestiva: cancellare il termine “razza” dal nostro linguaggio, eliminando la parola anche dal nostro testo costituzionale (segnatamente dall’articolo 3). Non sfuggono i buoni intenti di questa idea, animata dalla consapevolezza dell’evoluzione negativa di quel sostantivo e delle sue nefaste conseguenze. “Un lemma infetto, una tara inemendabile, un primordiale algoritmo dell’esclusione. Che sposta ogni volta la soglia della differenza per trasformarla in disuguaglianza, individuando continuamente nuovi bersagli. Ebrei o armeni, meridionali o immigrati e via all’infinito. Con l’effetto devastante di sdoganare atteggiamenti inqualificabili”. Così qualche giorno fa l’antropologo Marino Niola ne analizzava sagacemente la portata, difendendo l’ipotesi della cancellazione.
Concordo appieno con queste parole, ma proprio partendo da qui non posso approvare il semplicistico suggerimento di eliminare la parola avvelenata dalla Costituzione. Solchiamo sempre il sentiero dello stesso errore, tipico dei nostri anni. Vogliamo sinceramente migliorare, desideriamo incamminarci sulla via di un’equilibrata giustizia, dei diritti umani, dell’uguaglianza, della proficua costruttiva convivenza sociale. E’ un ottimo proposito, coltivato dalle migliori forze intellettuali e politiche. Ma pensiamo che per metterci su questa strada occorra distruggere, annullare, azzerare tutto il passato negativo e contraddittorio che abbiamo alle spalle. Crediamo che sia necessario rifondare il mondo, costruendo tutto ex novo e annichilendo i nostri errori e il male precedente. Siamo o vogliamo diventare bambini innocenti, puri, vergini; desideriamo crearci una bella favola edificante sul nostro presente e sul nostro futuro cancellando l’obbrobrioso passato pieno (proprio come le fiabe) di mostri spaventosi che è meglio eliminare dall’esistente. Ma non è annullando il passato e la storia che le cose vanno a posto e si risolvono i problemi. Anzi, perdere la consapevolezza delle parole e del male loro connesso li accentua, perché alla loro eredità pesante aggiunge la nostra ingenuità, quell’ignoranza che ci impedisce di cogliere l’analogia tra situazioni trascorse e presenti, e dunque ci rende incapaci di affrontare i pericoli di oggi.
La strategia della cancel culture come rimedio al male del mondo non funziona per almeno tre motivi: uno gnoseologico (o teoretico), uno etico, uno pratico. Il dibattito sulla cancellazione del termine “razza” ce lo mostra chiaramente. Dal punto di vista gnoseologico eliminare quel sostantivo significa alla lunga dimenticarlo, dimenticare progressivamente l’evoluzione del suo significato, cancellare dal ricordo gli errori e gli orrori che esso ha prodotto (la storia del razzismo); cioè produrre ignoranza e quindi indebolimento: a che pro? In una prospettiva etica, annullare la parola vuol dire azzerarne la portata e il peso, alzare sbrigativamente le spalle di fronte all’abiezione morale da essa prodotta, e di converso non dare rilievo allo slancio necessario (tante volte emerso di fronte al rifiuto dell’altro) per superare il male della degradazione attraverso la pratica di una nuova fratellanza umana. Non è meglio conservare quel “peso” della parola razza, per capirlo e analizzarlo criticamente, e poterlo dunque superare? A livello pratico, espungere il termine dall’uso comune e toglierlo dal testo costituzionale porterebbe fra l’altro a smarrirne il concetto nelle norme tese ad evitarne gli effetti nefasti, cioè il razzismo e i comportamenti razzisti. Non possiamo illuderci che cancellare il termine razza significhi cancellare il razzismo; ma senza la parola adeguata e storicamente segnata come colpire chi agisce e offende in nome di essa?
Non è cancellando i termini sgradevoli o distruggendo le statue (cioè costruendo castelli in aria) che sconfiggeremo il razzismo, ma purificando le nostre coscienze attraverso la conoscenza (anche e soprattutto del male passato), mediante la riflessione morale e l’elaborazione di obiettivi etici improntati all’umanità, tramite la realizzazione di pratiche politiche all’insegna di una sostanziale parità di diritti e doveri. Non con la “cancel culture”, dunque; piuttosto con una “remember culture” e con una “thinking culture”.

David Sorani