Le giuste parole

In franchezza, il cosiddetto “caso Durigon” – ossia un nostalgico (dei nomi?) che fa il sottosegretario nella maggioranza di governo – per chi è abituato a confrontarsi con ciò che resta di quanto mai se ne è andato per davvero, ovvero una volta per sempre, non procura alcun fremito di sorpresa. Il fascismo sussiste, sia pure in forme traslate e immaginarie. È così, per tante persone, a ben pensarci. In quanto esistono non pochi estimatori del passato, tra le molteplici, se non infinite, pieghe del nostro presente. E basta così, senza stare a fare tanti chiose o spigolature. Poiché una Repubblica democratica e costituzionale contempera in sé, senza comunque legittimarla, anche la sua negazione. Parrà un paradosso, ma tale non è quando viene affermato che sussiste la libertà di pensiero, anche quella della negazione delle libertà, invece gabellata come manifestazione di libera espressione. Esattamente ciò che i nostalgici coltivano, in se stessi, come propensione alla massima censura: “lasciateci parlare affinché per parte nostra, un giorno, vi si impedisca di farlo”. Peraltro, dinanzi all’ipotesi di intitolare una via (o piazza) a Giorgio Almirante (l’ennesima, per capirci, a ruota di quella per Arnaldo Mussolini) ci sono stati anche quelli che hanno sostenuto che il segretario del Msi non sia mai stato fascista. Cosa che al suddetto, francamente, credo che procuri un rivoltamento delle mortali spoglie. Almirante, per capirci – ma si tratta di vano esercizio, per chi non vuole vedere nulla dei fatti, in quanto tali – si ritenne invece tale fino all’ultimo dei suoi giorni. Non gli si fa una cortesia, beninteso, qualora se ne manipoli l’intima identità. E tuttavia, in fondo, il problema non è questo. Poiché l’incipit «non siamo mai stati» fa assai più cortesia all’opportunista di turno che non a chi, assumendosene le responsabilità, non neghi il suo personale passato, magari abbellendolo a seconda delle circostanze del momento. In fondo, se vogliamo stabile quale potrebbe essere il vero “carattere” diffuso, tra certuni, invero molti, non è qualcosa che abbia a che fare appieno con la tragedia del male. Semmai, piuttosto, con la farsa dell’Arlecchino di turno. Nessuna compiacenza, beninteso, con l’orrido, il tragico, il luttuoso, l’infausto e il nefasto. Non è questo il punto.
Semmai, nell’età della cosiddetta «morte delle ideologie» (celebrata come la soluzione di ogni problema quando, invece, ne ingenera più di quanti ne risolva), varrebbe piuttosto confrontarsi con il camaleontismo degli apologeti e degli esegeti del “passato che non passa”. Ora camuffati sono mentite spoglie, in attesa di tempi migliori. Ciò ci dice e ci consegna, in fondo, la vicenda del sottosegretario. Anche per questo, a ben pensarci, nel ripetersi di certi convincimenti mascherati da diversamente altro (non pochi hanno preceduto il summenzionato, ancora ne seguiranno, se ne può stare certi) nel corso del tempo, dinanzi ad un’età che si vive come incapace di darsi dei limiti, varrebbe forse il principio per il quale si rimane ancorati non ad un’«identità» bensì a pochi, ma insindacabili, principi etici. Basterebbero i dieci comandamenti (assèret hadibrot, il decalogo, ossia le «dieci enunciazioni» di principio), i più elusi nella storia dell’umanità. Che non prescrivono ma offrono, a chi intenda ascoltarli, il senso del limite. Poiché non esiste umanità se non c’è senso del limite. Per capirci fino in fondo: chiamiamo con il nome di «ideologia» non un pensiero complesso ma ciò che definiamo con tale nome in quanto incapace di pensare, e tollerare, quanto intenda invece come diverso da sé. Mentre non è tale ciò che si manifesta, faticosamente, come plurale. Essere parte di una minoranza, in fondo, implica la spontanea consapevolezza delle tante diversità. Non solo di quelle proprie. Quindi, dei diversi modi, coesistenti, di vivere l’esistenza. Altrimenti, si rischia di divenire parte della cosiddetta «maggioranza silenziosa», quella che non si esprime non poiché abbia già da subito un’idea per ogni situazione ma perché – semmai – ne è totalmente sprovvista. Delegando ad altri. Ecco: essere emancipati, e preferire il nome di Falcone e Borsellino ad Arnaldo Mussolini, forse implica questa scelta di responsabilità. Lasciando da parte, almeno in questo caso, il Medio Oriente e quant’altro.

Claudio Vercelli