Storie di Libia – Silvia Bublil

Silvia, ebrea di Libia dedica la sua intervista alla memoria dei genitori. La sua era una famiglia di umili origini, osservante ma non eccessivamente religiosa. Suo padre era sarto e la madre si occupava della famiglia. Non ricorda quasi nulla della sua vita in Libia, che ha lasciato quando aveva solo sette anni, ma del 5 giugno 1967 conserva lucidamente il ricordo di ogni istante vissuto. Si trovava a scuola e la maestra consegnava le pagelle. Vide entrare il padre che parlottò brevemente con la maestra e poi portò via Silvia rapidamente dalla scuola. Arrivati a casa, c’era grande agitazione e preoccupazione perché non si riusciva ad avere notizie di una delle sue sorelle. Si sentivano urla e tentativi di sfondare il portone, mentre la folla urlava “sgozza l’ebreo” con grande ferocia. I genitori per paura che il portone cedesse decisero di nascondersi nella lavanderia in terrazza. Nella fretta, la madre non prese nulla da mangiare o da bere, neanche per il figlioletto di soli sette mesi. Attraverso i tetti il padre, comunicando con una zia che aveva il telefono e abitava proprio vicino a loro, riuscì a sapere che la figlia era nascosta in casa di loro amici e si tranquillizzarono. La puzza di fumo aumentava come le urla lungo la strada. Insieme a loro, si rifugiavano anche una vicina e un bottegaio. Chiamarono i pompieri quando sentirono qualcuno urlare che era imminente lo scoppio delle bombole del gas in un deposito dietro alla loro casa, ma questi rispondevano schernendoli. Finalmente arrivò la polizia che li fece scendere ma all’improvviso si avventarono contro il padre accusandolo di aver gettato acquaragia sui dimostranti provocando loro ustioni. Non ascoltarono l’uomo che non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere perché era intento a nascondere la sua famiglia e lo picchiarono riempiendolo di calci e pugni mentre uno di loro puntava la pistola alla testa del bambino per impedire alla moglie di muoversi. Silvia era atterrita e immobile per la paura. Ad un certo punto la sorella maggiore, assai minuta, si scagliò contro i poliziotti urlando di lasciare stare il padre e anche loro si immobilizzarono per lo scoppio di rabbia inaspettato. Proprio in quel momento passava un auto di lusso con un signore molto elegante che si rivolse ai poliziotti chiedendo cosa volessero dal padre di Silvia. Era l’ambasciatore egiziano, cliente abituale del padre e che aveva molta stima in lui come sarto e come persona perbene. Così i poliziotti li lasciarono andare e lui offrì alla famiglia Bublil rifugio nella sua casa. Il panico invase la madre e l’altra signora. Si sapeva che la moglie dell’ambasciatore era palestinese e temevano che stessero per incontrare una fine anche peggiore allo scampato pericolo. Ma, contro ogni nefasta previsione, furono accolti amorevolmente e sfamati insieme a tanti altri ebrei che avevano trovato ospitalità presso quella famiglia. Di lì a breve, una signora capitata quel giorno lì, ospite della figlia, prese 42 ebrei di quelli che erano presenti, tra cui Silvia e la sua famiglia, e si recarono presso la sua abitazione in cui dovevano solo stare attenti a non fare rumore.
Ogni giorno, alle 5 di mattina, appena terminava il coprifuoco, il padre usciva per capire cosa stesse succedendo, ma faceva rientro scuro in volto e trasmetteva solo tanta paura a Silvia che lo vedeva parlottare con la madre sottovoce. Sentiva che dovevano scappare ma non avevano i documenti, erano cittadini dhimmi. Il 30 giugno finalmente giunsero a Roma con un volo notturno. Senza null’altro che la loro famiglia unita, null’altro per loro contava di più. Il padre era un grande sionista e loro non ne erano a conoscenza, lo scoprirono solo molto più tardi, e si diede molto da fare per la comunità ebraica. Difatti era responsabile di una una sinagoga a Tripoli, ne fondò una a Roma e poi ancora un’altra in Israele. Nel 1967 era anche tornato a Tripoli per cercare di vendere qualcosa ed era riuscito a trafugare dei reperti custoditi in luoghi sicuri che erano scampati ai saccheggi.
Silvia ha trasmesso ai suoi figli la sua memoria personale, ma anche le tradizioni e le usanze e alcune frasi tipiche e proverbi. “Anche le mosche vogliono tossire” è uno dei suoi preferiti e significa che anche chi non conta nulla ama dire la sua. Crede che se non fossero stati cacciati avrebbero vissuto una vita peggiore, sempre attenti a guardarsi le spalle. Lei e i componenti della sua famiglia sono stati felici di aver lasciato la Libia e non cambierebbe un minuto della sua vita in Israele. Il marito di Silvia è tripolino e per questo motivo è stato facile conservare molte tradizioni anche se poi l’integrazione con ebrei di diversa provenienza ha arricchito il loro retaggio culturale. Ritiene che gli ebrei di Libia siano più accoglienti ed ospitali rispetto ad altri gruppi, le donne umili e mai fanatiche, in generale dotati di grande calore umano e grande forza e determinazione per affrontare le avversità con le proprie forze, senza chiedere assistenza per poter andare avanti e costruire un futuro. Ritiene inutile chiedere risarcimenti per ciò che è stato perso e anche costruire in Libia monumenti a ricordo. Per Silvia è importante ricordare, ma è più importante guardare avanti che soffermarsi sul passato.
La decisione della famiglia Bublil di trasferirsi in Israele due anni dopo l’arrivo a Roma non fu facile, ma Silvia ama ricordare le parole ferme del suo papà Nessim z”l: “Se devo morire perché ebreo, voglio morire nella mia terra d’Israele”.

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(Nell’immagine la famiglia di Silvia durante la festa della sua Hanna)

(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(16 agosto 2021)