Sul piccolo schermo fra storia e risate

Un anno fa a dominare gli Emmy Awards erano stati Eugene e Dan Levy, padre e figlio a cui si deve una delle serie tv più irresistibili degli ultimi anni: Schitt’s Creek, parabola ironica di una famiglia che dal lusso precipita in miseria. Quest’anno la lezione dell’humor ebraico torna in scena con la stagione finale di The Kominsky Method, che spunta la nomination come best comedy e porta a casa una raffica di candidature per gli interpreti. La serie è ambientata a Hollywood e a ritrarre l’universo più ebraico che si possa immaginare in un fuoco di fila di battute fulminanti è un cast in cui gli ebrei sono la maggioranza. Nel ruolo di Sandy Kominsky, attore di dubbio successo e direttore di una scalcinata scuola di recitazione, c’è uno strepitoso Michael Douglas, nel 2015 vincitore del cosiddetto Nobel ebraico, il Genesis Prize, candidato come migliore attore protagonista.
Al suo fianco, nelle due stagioni precedenti, l’amico e agente Saul Newlander, interpretato da Alan Arkin, nipote di immigrati ebrei dall’Est Europa, Oscar nel 1966 per il suo ruolo di debutto in “The Russians are coming, the Russians are coming” di Norman Jewison. Nell’ultima stagione compare solo in spirito e dunque per lui molti applausi ma niente nomination. “Meno lavoro, meglio è per la mia salute”, ha spiegato. “Lo stress sul lavoro è enorme e il mio sistema reagisce alla svelta”. E considerato che ha 87 anni non si può che dargli ragione. Nei panni improbabili di fidanzato della figlia di Kominsky troviamo invece Paul Reiser (candidato come supporting actor), un altro discendente di emigrati ebrei, nel suo caso dalla Romania. È infine una smagliante Lisa Edelstein, la dottoressa Cuddy nella serie Dottor House, a interpretare la nevrotica figlia del defunto Newlander.
Spostandosi su argomenti ben più seri, vale infine la pena segnalare la nomination di Oslo come miglior film per la televisione. Basato sullo spettacolo teatrale vincitore nel 2017 di due Tony Awards, il lavoro ricostruisce le complesse manovre diplomatiche che nel 1993 hanno condotto agli accordi fra israeliani e palestinesi e alla storica stretta di mano fra Itzhak Rabin e Yasser Arafat. Diretto da Bartlett Sher e prodotto fra gli altri da Steven Spielberg e da Marc Platt (La La Land), il film è stato accusato di indugiare nei cliché e non ha ottenuto grandi riscontri di critica. Il tema è però di stretta attualità e tornare a quel tempo può aiutare a riaccendere la speranza. A concludere Oslo è infatti un montaggio di girati dell’epoca fra cui il toccante discorso in cui Rabin a Washington afferma la possibilità della pace: “Noi che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi; noi oggi vi diciamo con voce chiara e forte: basta sangue e lacrime, basta. Noi non desideriamo vendette. Non nutriamo odio nei vostri confronti. Noi, come voi, siamo esseri umani: gente che vuole costruire una casa, piantare un albero, amare, vivere a fianco a fianco con voi, in dignità e in sintonia, come esseri umani. Come uomini liberi”.

Daniela Gross