“Boicottare Durban, aiutare gli afghani”
L’impegno dell’Occidente secondo BHL

Il 22 settembre si terrà la riunione Onu per il ventesimo anniversario della Conferenza di Durban – in cui si adottò la vergognosa e antisemita dichiarazione che paragonava sionismo a razzismo. Quell’evento è diventato l’esempio dell’odio verso Israele presente nella comunità internazionale, come ha ricordato di recente il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid. Per questo sette paesi, tra cui Stati Uniti e Francia, hanno già annunciato che non parteciperanno. E diversi appelli sono arrivati affinché l’Italia segua l’esempio di Washington e Parigi e non si presenti a Durban. A ricordare perché quella conferenza – sulla carta organizzata per combattere razzismo, xenofobia e intolleranza – non è da celebrare, ma da condannare è stato l’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy. In un recente editoriale pubblicato in Francia e in Israele, Lévy ha ricordato come il vertice Onu di Durban sia stato un “imperdonabile fallimento su tre fronti”.
“In primo luogo, – l’analisi del filosofo – non appena la questione palestinese ha preso il centro della scena (il che è avvenuto molto presto), la stigmatizzazione di Israele è diventata il leitmotiv dei lavori. Yasser Arafat ha denunciato ‘l’apartheid’. Fidel Castro finse di allarmarsi per un presunto ‘genocidio’. La sinistra risoluzione del 1974 che equiparava il sionismo al “razzismo” fu riesumata, nonostante l’abrogazione nel 1991. La lotta contro l'”occupazione” è stata trasformata nella madre di tutte le battaglie politiche presenti e future. E alcuni dei seimila rappresentanti delle ONG invitati all’evento sono scivolati facilmente dal rabbioso antisionismo al buon vecchio antisemitismo”.
L’evento in Sudafrica si trasformò ben presto in un megafono della retorica antisemita. I delegati ebrei furono insultati, spuntarono stand che vedevano il falso dei Protocolli dei Savi di Sion in varie lingue. Nelle manifestazioni si sentì gridare “Un ebreo, una pallottola”. “Era il primo atto del neo-antisemitismo. – il resoconto di Lévy – Mai avevamo assistito alla sua piena espressione su tale scala e con tale forza oscura”.
In secondo luogo, spiega l’intellettuale francese, Durban ha causato una significativa frattura nel legame tra “l’antirazzismo contemporaneo e gli attivisti, ebrei e non ebrei, che hanno combattuto per i diritti civili in America 40 anni fa”. Con lo scudo dell’anticolonialismo, il movimento antirazzista ha aperto la porta ad antisemiti e odiatori d’Israele. E infatti, “otto anni dopo Durban I, abbiamo avuto Durban II, presieduta dal colonnello Gheddafi. E tre anni dopo, nel 2011, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha detto le sue sciocchezze negazioniste a Durban III”.
Il terzo imperdonabile fallimento fu che Durban inaugurò, secondo Lévy, una stagione in cui le tragedie di molti popoli furono messe in secondo piano, mettendo al centro la sola questione israelo-palestinese. “Nessuno può entrare nel club delle vittime se non può rivendicare un ruolo nella guerra contro il padrone americano e il suo servo israeliano”, l’affondo del filosofo. E così furono escluse dalla “grande narrazione” “i tutsi vittime del razzismo hutu; le carovane di donne e bambini del Sud Sudan radunati come bestiame per essere venduti alle famiglie arabe del nord; le donne Nuba marchiate e trasformate in schiave sessuali; i milioni di morti della guerra in Angola; le vittime del genocidio in Darfur; gli abitanti dello Sri Lanka intrappolati tra le fiamme del fondamentalismo indù e buddista; gli uiguri, i dalit indiani e altri intoccabili”.
Per questi tre motivi, conclude Lévy, partecipare alle commemorazioni dei 20 anni da Durban I “sarebbe una vergogna”. “L’unica posizione degna da prendere, quando la nuova conferenza della vergogna si aprirà il 22 settembre, è quella di unirsi al boicottaggio”.
E i termini fallimento e vergogna sono stati usati in queste ore da Lévy anche per parlare di quanto accaduto in Afghanistan. Lo scrittore ha puntato senza mezzi termini il dito contro il Presidente Usa Biden. “Gli americani se ne sono andati in un modo assolutamente misterioso: nessuno ha combattuto una battaglia, li abbiamo abbandonati mani e piedi… Abbiamo consegnato donne afgane e democratici afgani nelle mani di terroristi islamici”, ha detto. “Gli americani hanno tradito i loro migliori alleati, hanno lasciato crollare il baluardo che ci proteggeva da Al-Qaeda ieri e Daesh oggi”, l’accusa di BHL, che ha accusato le forze occidentali, Stati Uniti in testa di lavarsi “le mani per quello che accadrà d’ora in poi [in Afghanistan], in particolare per le donne lapidate nei villaggi, perché hanno osato mettersi lo smalto”.
Ci sarebbe però ancora una speranza. “C’è ancora il Panshir. Resta un giovane, Ahmad Massud, figlio del leggendario comandante Massud, che è riuscito, dopo la presa di Kabul, a sfuggire agli assassini che lo inseguivano, e si è rifugiato nel suo bastione nel Panshir. – il racconto di Lévy, tradotto anche da Repubblica – Mi ha scritto lunedì 16 agosto: ‘Siamo nella stessa situazione dell’Europa nel 1940. Lo sfacelo è totale. Il collaborazionismo è ovunque. Ma, nonostante le battute d’arresto e persino la catastrofe, non abbiamo perso tutto e intendo, con i miei mujaheddin, riprendere la lotta’”. Su Massud, sostiene l’intellettuale, è necessario che l’Occidente punti le sue carte per dare una speranza all’Afghanistan. “Ahmad Massoud, figlio del leggendario comandante Massoud e ora l’incarnazione della resistenza all’ordine talebano. – le parole di Lévy – È tornato in mezzo ai suoi comandanti in questa valle del Panshir dove l’ho ritrovato qualche mese fa. La speranza inizia ora”.