L’arte della fuga

Sono tempi emotivi, quelli che stiamo vivendo. Un’immagine per tutti: i «nuovi» talebani a Kabul costituiscono, per molti di noi, qualcosa che rimanda alla memoria di un tragico film già visto. Non ricordano solo la Saigon del 1975 ma anche e soprattutto il ripetersi dello scenario di una decadenza di poteri dove, inesorabilmente, si consumano rese dei conti, vendette come anche e soprattutto azzeramenti dell’altrui esistenza. In particolare modo, in quest’ultimo caso, dell’esistenza civile e sociale. Non c’è peraltro bisogno di giungere ai lavacri di sangue per definire da subito come intrinsecamente liberticida ciò che va configurandosi in quelle terre. Rimane il fatto che il disfacimento di un regime corrotto e imbelle – sistematicamente incapace di governare altro che non fossero i propri interessi, espressione di una ristretta corporazione di privilegiati, generosamente sostenuta da immeritati aiuti esterni – era, come tale, nell’ordine dei fatti. Si trattava essenzialmente di capire quando ciò sarebbe successo. Poiché le frizioni tra una corruzione dilagante, la sostanziale delegittimazione dei poteri pubblici, la dipendenza pressoché totale dalle contribuzioni straniere, la frantumazione della società nazionale in gruppi di fedeltà clanici così come, dalla parte opposta, il diffuso radicamento, non solo militare, di una comunità etnica che ha invece espresso un’organizzazione combattente capace ora di offrirsi come potenziale soggetto politico regionale, in quanto tutti fenomeni strutturali di quello scenario, già da tempo avevano lasciato intendere quale avrebbe potuto essere l’esito della consunzione della presenza americana ed europea in quelle terre. Gli accordi di Doha, del febbraio dell’anno scorso, negoziati e sottoscritti dagli Stati Uniti e dagli esponenti dell’«Emirato islamico dell’Afghanistan», sono peraltro la cornice legittimante di ciò che si è consumato, pur troppo tumultuosamente, nei giorni scorsi. I talebani, in altre parole, sono quindi andati all’incasso di quanto, ancora una volta molto generosamente, le amministrazioni americane, motivate dal ritiro totale dei propri uomini, hanno offerto loro. Tuttavia, soffermarsi esclusivamente sulle responsabilità come sulle responsabilità afghane, ovvero degli attori autoctoni operanti all’interno di un tale scenario, da sé ci direbbe assai poco. Così come ancora meno ci è d’aiuto il rifarsi solo agli ultimi fatti di cronaca, che costituiscono la parte terminale di un percorso invece iniziato nel 2001. Quanto meno, l’una e l’altra cose, se prive di uno sguardo retrospettivo, oramai quasi storico, ci consegnerebbero un mosaico del tutto incompleto. Joe Biden, nella sua gelida comunicazione dalla Casa Bianca, ha peraltro rivendicato il fatto che la fuoriuscita, ancorché non così precipitosa, fosse il concreto obiettivo che gli americani si prefiggevano (quanto meno già dai tempi di Barack Obama, se non addirittura dal 2006). Gli oltre duemila miliardi di dollari investiti nel mentre, in una impresa ventennale che, al pari della montagna che partorisce il topolino, ha prodotto l’eterogenesi dei risultati (in sostanza, il fallimento di tutte le ipotesi di gestione negoziata delle tensioni), rimangono per Washington un tornante fondamentale. Va ricordato che l’intervento statunitense di vent’anni fa si prefiggeva una pluralità di obiettivi, avendo a matrice quella che, dopo l’eclatante vicenda dell’11 settembre, era stata definitivamente licenziata come una sistematica «guerra al terrore». Sul terreno afghano si intendeva smantellare l’organizzazione, la logistica, le infrastrutture e le reti di connivenza di Al Qaeda, all’epoca identificata come la minaccia più drastica. In altre parole, al netto del fatto che il saudita Osama bin Laden dovesse usare come trampolino operativo l’Afghanistan, dinanzi alla formulazione di un’azione terroristica senza limiti spaziali né confini geografici (e quindi senza neanche altro territorio che non coincidesse con quello della propria ideologia) Washington rispondeva invece indicando lo spazio entro il quale il terrorismo medesimo poteva organizzarsi pressoché indisturbato. I talebani c’entravano fino ad un certo punto con queste dinamiche ma ne erano comunque collusi, governando il territorio del paese. E non solo per questa ragione. Inoltre, per l’Amministrazione di Bush jr non era meno importante inviare un messaggio netto al consesso di «failed and rogue States», sulla lista nera della Casa Bianca: qualsiasi intemperanza sarebbe stata in qualche modo punita con un intervento militare, diretto o indiretto che fosse. Si parlò ancora, non a caso, di una sorta di una nuova «presidenza imperiale», che legava al diritto unilaterale di ingerenza una sua peculiare declinazione delle questioni legate ai diritti umani, sempre più spesso legate al ruolo planetario che gli Stati Uniti intendevano ancora garantirsi attraverso la propria primazia nello scenario internazionale. Erano gli anni dei neoconservatori – chi ha preservato memoria delle culture politiche, lo rammenterà – e del liberalismo interventista. Gli uni e l’altro coniugavano il contrasto al terrorismo con un più generale discorso sulla necessità di ristabilire equilibri di lungo corso. Si era reduci dalle tragici vicende che avevano accompagnato, nei dieci anni precedenti, la dissoluzione della ex Jugoslavia. Non a caso il tema dell’intervento in Afghanistan era declinato e connesso anche (e soprattutto) alla questione della costituzione di una nazione unitaria, in un paese altrimenti destinato a sfaldarsi permanentemente nel conflittuale mosaico etnico, anche per via degli altrui appetiti regionali, che premevano ai confini. Interventismo, unilateralismo, egemonismo e modernizzazione erano quindi intesi come i volti prismatici di un rinnovato protagonismo statunitense, basato sulla presenza militare così come su un programma di interventi economici. Benché la missione in Afghanistan si sia poi trasformata anche nella durevole presenza di una coalizione internazionale, in vent’anni la maggioranza dei caduti, ovvero più dei due terzi, sono stati statunitensi. E negli Usa il conflitto afghano è divenuto, nel corso tempo, un conflitto proprio, «The America’s Longest War». Fino a rivelare la sua assenza di mete politiche plausibili. A partire non solo dalle spaccature in terra afghana, dove a fronte di un parziale coinvolgimento nei benefici delle comunità urbane, si è invece contrapposta la sostanziale impossibilità di controllare (e in qualche modo trasformare) quelle rurali. Dove, come già è capitato in molte altre guerre – ed era successo agli stessi sovietici tra la fine del 1979 e il 1989 – le immense aree al di fuori delle città mai hanno mutato qualcosa della loro precedente organizzazione clanica ed economica (a partire dalle coltivazioni del papavero e dalla lavorazione dell’oppio). Ma dovendosi confrontare anche con leadership locali scarse se non prive di un seguito che non fosse quello di quei gruppi d’interesse che raccoglievano intorno a sé, dando corso non solo ad abituali pratiche politiche clientelari e patrimonialiste – delle quali la maggioranza della popolazione non beneficiava in alcun modo – ma ad una vera e propria cleptocrazia. L’indecoroso sfaldamento dell’esercito nazionale delle ultime due settimane è solo uno dei più significativi indici di un tale stato di cose. Da questo punto di vista, i talebani non hanno invece mai perso il loro radicamento, a partire dalla propria etnia pashtun, di cui sono una nervatura strategica. Rivelandosi inoltre particolarmente attenti ad alimentare il gioco di punizioni e di ricompense tra nemici ed alleati. Maestri del narcotraffico, vero motore del paese. Durante il secondo mandato di Obama l’intenzione americana di ritirarsi era ormai già manifesta, alimentata dalle corali richieste degli elettori. Con la crisi del 2008 l’ipotesi di un unipolarismo statunitense ha quindi subito un ulteriore ridimensionamento. In questo, le tre presidenze che si sono succedute a Bush jr, ovvero Obama, Trump e quindi Biden, portano senz’altro distinte responsabilità ma hanno tutte e tre condiviso l’imperativo di sganciarsi da quella parte, sempre più ampia, di Medio Oriente che consideravano (e continuano a considerare) come politicamente improduttiva se non deleteria per il nuovo quadro di impegni di Washington. La rotta di Kabul, la fuga repentina in mezzo ad una bolgia dantesca, l’accredito che al momento i talebani cercano di incamerare, il discredito per l’attuale Amministrazione statunitense, sono solo tra le ultime pennellate in un quadro completamente scontornato. Si parla della pessima performance americana. Ed è vero. Ma su questo ha ragione, in tutta plausibilità, l’americanista Mario Del Pero quando, commentando a caldo i fatti appena consumatisi, afferma: «il problema non è la credibilità, ma – molto più concretamente – quel che avverrà o non avverrà in Afghanistan (così come quello che è avvenuto nel Vietnam comunista, oggi importante partner degli Stati Uniti). Se l’Afghanistan dovesse tornare a essere rifugio di gruppi terroristici che colpiscono gli Usa e l’Europa, allora Joe Biden sarà a tutti gli effetti colui che “ha perso l’Afghanistan” con le pesanti conseguenze politiche e, anche, elettorali del caso. Se l’Afghanistan dei talebani rimarrà un regime mostruoso, oscurantista e violento, attraversato da periodici conflitti interni, che però si limita al massimo a contribuire all’instabilità regionale, allora negli Usa si dimenticherà rapidamente quanto avvenuto».

Claudio Vercelli

(22 agosto 2021)