La libertà e il tramonto dell’Occidente

Sull’appassionante lettura di “On Revolution” di Hannah Arendt che mi sta impegnando in questo periodo si abbattono la notizia e le immagini drammatiche della débacle occidentale in Afghanistan. È difficile immaginare un contrasto più profondo di quello che si produce tra la ricerca arendtiana di un modello “rivoluzionario” di libertà e democrazia e la dimostrazione di impotenza della democrazia americana e occidentale in genere palesata davanti ai nostri occhi dal troppo facile trionfo dei talebani dopo gli inutili venti anni di presenza, influenza, controllo dell’Occidente “civile e democratico”.
La riflessione di Arendt sulla rivoluzione come moderna prospettiva di rinnovamento e coinvolgimento popolare (dal Settecento ad oggi, peraltro, quasi sempre fallita per cause endogene) mette al centro la libertà quale elemento primo e imprescindibile della dialettica politica. E la politica è da lei intesa, sul modello della polis greca, non in senso istituzionale formale e impersonale, ma come partecipazione diretta – organizzata, produttiva e appunto libera – di pluralità variegate (non le anonime masse) entro spazi pubblici di discussione. Questa è la materializzazione della libertà e costituisce, ben più dei sommovimenti violenti che troppo spesso caratterizzano gli eventi rivoluzionari, l’essenza stessa della rivoluzione, incarnata di fatto dai piccoli e diffusi organismi di base capaci di progettare e costruire un autentico rinnovamento: le townships nelle colonie nordamericane in lotta per l’indipendenza, le sociétés populaires e le sezioni della Comune parigina nella Francia rivoluzionaria, i Soviet agli albori della rivoluzione russa, i Räte nella rivoluzione tedesca del primo dopoguerra, le analoghe strutture di dibattito progettuale nella rivoluzione ungherese del 1956. Tutte articolazioni “dal basso” della costruzione politica (nel nostro linguaggio politico “Consigli”), troppo spesso sfruttate e poi di volta in volta soffocate nel sangue dal potere rivoluzionario del terrore giacobino, del governo bolscevico di Lenin e poi di Stalin, dalla repressione antirivoluzionaria dei Freikorps armati dalla socialdemocrazia tedesca, dall’intervento repressivo dell’URSS. Unica tra le rivoluzioni a non distruggere la sua base di pluralità popolare (per quanto incapace di farsi autenticamente guidare dai suoi piccoli organismi di confronto politico) fu quella americana, avvantaggiata dal fatto di emergere da un fervido scambio federale tra le colonie inglesi e dalla solida base costituzionale della monarchia britannica, ma soprattutto di essere guidata dalla concreta lungimiranza politica dei Padri Fondatori (Jefferson, Hamilton, Adams, Madison, Jay; la linea politica del “Federalist”). Unica rivoluzione arrivata davvero al successo (cioè all’affermazione della libertà) fu dunque per Hannah Arendt quella che portò alla nascita degli Stati Uniti d’America, laddove la più la più celebrata, blasonata, studiata rivoluzione francese e la rivoluzione russa egemonizzata dai bolscevichi finirono nel sangue e nella tirannia lasciando dietro di loro pesanti conseguenze politiche.
La diagnosi arendtiana è fondamentalmente condivisibile. Ma la realtà politica americana degli ultimi decenni (almeno dalla fine della presidenza Clinton) si è incaricata – con il suo complessivo indebolimento – di aprirci gli occhi sull’inevitabile distanza che sempre separa le analisi teoriche e storiche dalla concreta realizzazione. Distanza di cui, del resto, Arendt era perfettamente consapevole.
Al di là di questa considerazione generale, quale significato assume oggi, duecentotrentaquattro anni dopo la ratifica della Costituzione americana da parte della Convenzione di Filadelfia, la conferma del ventennale fallimento USA in Afghanistan; un fallimento preceduto fra l’altro da altre clamorose débacles come quella del Vietnam alla metà degli anni Settanta? Innanzitutto occorre ricordare che la democrazia americana – pur con tutte le sue evidenti carenze – nasce e agisce ancora efficacemente come sistema politico ad uso interno, e non quale modello per altri paesi all’uscita da regimi tirannici. Vale a dire che la costruzione democratica non è un prodotto facilmente “esportabile”, legata come è alle dinamiche culturali, sociali, storiche di ciascuna popolazione. Ciascuna entità nazionale pare chiamata a costruire con le proprie risorse una propria particolare struttura democratica. Ma anche questa si rivela oggi una visione eccessivamente schematica e di fatto irrealizzabile, in un mondo totalmente globalizzato e interdipendente, di fronte a forze come quelle islamiste radicali per molti aspetti fondate su una sistematica violazione dei diritti umani. L’opposizione alla violenza multiforme sulle popolazioni conquistate e dominate (pensiamo alla totale repressione e alla schiavizzazione del mondo femminile, alle lapidazioni e alle decapitazioni, alle retate casa per casa alla ricerca dei nemici politici) è qualcosa che la lotta al nazifascismo dovrebbe averci insegnato e che diviene oggi per il mondo democratico un obbligo internazionale, morale e politico insieme.
In tale ottica l’analisi di Hannah Arendt in “On Revolution” avrebbe potuto diventare un suggerimento prezioso. Quei gruppi autonomi di discussione e progettazione, quegli spazi di pluralità pubblica da lei individuati come protagonisti politici dei fenomeni rivoluzionari (i Consigli di cui dicevo sopra) – se davvero realizzati entro la popolazione locale, se effettivamente liberi e indipendenti, se appoggiati con forza dalle potenze occidentali quando esse avevano il controllo politico e militare del Paese – avrebbero forse potuto avere la capacità demiurgica di costruire poco a poco dal basso una struttura democratica in Afghanistan. L’Occidente democratico (e la responsabilità non è certo solo degli USA, ma anche della NATO dell’ONU delle potenze occidentali che hanno interpretato in senso restrittivo il loro mandato di “controllori” dello status quo) ha invece preferito lasciare tutto nelle mani di un debole governo fantoccio, limitandosi a dare istruzioni militari all’esercito locale e a sorvegliare il territorio senza tentare di costruire dall’interno un contenuto politico e istituzionale.
A questo punto, quando ormai là tutto è crollato, pensando al presente e al futuro viene in mente il titolo di un altro, ben diverso classico del pensiero europeo a cavallo tra storia, politica e filosofia. “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler (1918-1923) voleva tracciare (come specifica il sottotitolo dell’edizione in due volumi del 1923) i “lineamenti di una morfologia della storia mondiale”. Lo faceva partendo da una visione fortemente conservatrice e tradizionalista (parte di una tendenza culturale maturata in Germania all’indomani del tragico esito della I guerra mondiale e denominata poi dalla critica “Rivoluzione conservatrice”) che distingueva nettamente tra Kultur – la cultura vitale e vitalisticamente barbarica tipica del periodo costruttivo delle grandi età storiche – e Zivilisation – la raffinata e decadente cultura moderna, caratterizzata dallo strapotere del denaro, dallo sviluppo della stampa e peculiare dell’ineluttabile disfarsi delle civiltà. Gli anni Venti del secolo scorso erano per lui inesorabilmente avviati al tramonto della Abendland (l’Occidente, letteralmente “la terra della sera”): «Nell’antichità si aveva la retorica, nell’Occidente si ha il giornalismo e, invero, al servigio di quella cosa astratta che rappresenta la potenza della civilizzazione, il denaro».
Speriamo che alla lunga, nonostante tutto, la visione pluralista, costruttiva, pragmatica di Hannah Arendt riesca a prevalere sulla pietra tombale calata da Spengler sopra il mondo contemporaneo, capace solo di evocare un clima di inquietante autoritarismo.

David Sorani