‘Lasciai Herat bambino e non tornai più,
mi addolora la sorte del popolo afghano’

La crisi afghana e i nuovi flussi migratori tra i temi al centro della nuova edizione del laboratorio giornalistico UCEI Redazione Aperta al via nelle scorse ore. Una vicenda drammatica e complessa con una particolare prospettiva ebraica: quella di Zebulon Simantov, l’ultimo ebreo d’Afghanistan, apparentemente intenzionato a non lasciare il Paese nonostante le preoccupazioni espresse in passato su un possibile regime talebano al potere.
Che ne sarà di Simantov se non abbandonerà Kabul? Una domanda che investe in modo diretto anche l’Italia. E in particolare la famiglia di David Khafi, 78enne imprenditore nato ad Herat ma che vive da oltre cinquant’anni a Milano e che ha un legame di parentela con Zebulon.
“Conosco bene la sorella, che vive in Israele. La situazione ci preoccupa, non lo nascondo. Per lui personalmente e per il popolo afghano”, spiega Khafi a Pagine Ebraiche.
Khafi ha lasciato Herat all’età di sette anni. “La nostra – racconta – era una comunità molto significativa e radicata. Sinagoghe, scuole ebraiche, spazi per l’aggregazione: non mancava niente. Il problema dell’assimilazione, in quel piccolo ma vivace mondo, non si poneva nemmeno”. Una comunità crocevia di culture diverse, “catalizzante anche per gli ebrei di Persia e Russia: le realtà a noi geograficamente più vicine”.
Ad imprimere una svolta la nascita dello Stato di Israele. “Da quel giorno – spiega Khafi – siamo stati incoraggiati ad andarcene. Il re in persona lo ha fatto capire in modo esplicito: ‘Avete uno Stato tutto per voi, emigrate lì’. Non eravamo più graditi e neanche tollerati, era il momento di andarcene. Alcuni fatti violenti, e persino degli omicidi, ce l’hanno confermato a stretto giro: un segnale inequivocabile. Anche se qualcuno ha cercato di ‘resistere’ fino alla Guerra dei Sei Giorni. Ogni ulteriore ostinazione, in quel momento, è stata spezzata”.
La famiglia Khafi si è rifugiata prima in Persia e poi in India. Per David la tappa successiva è stata l’Inghilterra, dove ha anche compiuto gli studi universitari. Da lì è arrivato in Italia, sua patria d’elezione da mezzo secolo. “Ma ormai – sorride – son più in Israele che a Milano”.
Ad Herat, dal giorno in cui l’ha lasciata, non è mai tornato. “Troppo pericoloso. Ce ne sarebbe stata anche la possibilità. Ma un viaggio del genere – sottolinea Khafi – ti dà garanzie sull’andata, molte meno sul ritorno”.
Un rapporto resta comunque aperto: “Da sempre – spiega – finanziamo a distanza la tutela e il decoro del cimitero ebraico locale, dove riposano anche i miei nonni. Uno dei pochi luoghi, nel Paese, che ha retto finora a ogni forma di devastazione”.
Il futuro dell’Afghanistan lo vede piuttosto plumbeo: “Si andranno a contrarre sempre di più opportunità e diritti. Con l’integralismo islamico purtroppo c’è ben poco da fare. Mi spiace davvero, perché tra gli afghani ci sono molte brave persone”.

Adam Smulevich

(Nell’immagine, David Khafi con i suoi familiari davanti al Muro Occidentale di Gerusalemme)