Ticketless – L’allampanato Artom
Leggere La scuola del silenzio. Per un profilo di Isacco Artom di Liana Funaro, appena stampato da Belforte, ha significato per me ritornare indietro nel tempo, in un certo senso ringiovanire. Un rimpianto, che vorrei condividere con altri della mia generazione, passati attraverso le stesse stagioni, le stesse letture, interessati come me ad approfondire la presenza e il ruolo che in quella storia gli ebrei hanno occupato e occupano (o vorrebbero occupare). Cercherò di spiegarmi meglio.
Perché così tanti anni sono stati necessari per avere un profilo esauriente di una figura così luminosa come Isacco Artom, che racchiude in se stessa un modo di essere cittadini, di pensare la politica, di ripensare all’identità dell’ebraismo nella società moderna?
Partirò da qualche ricordo personale. Sembra ieri. Sul finire degli anni Ottanta, uscito dall’Università, scosso dai sommovimenti sismici degli anni Settanta, trovai conforto in tre letture, che mi aiutarono a ritrovare un minimo di stabilità e di equilibrio: La storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce, il volume Chiesa e Stato in Italia dall’unificazione ai giorni nostri di Arturo C. Jemolo e, soprattutto la Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 di Federico Chabod. Tutte e tre queste opere riconoscevano all’età cavouriana, ai suoi più stretti collaboratori – una classe dirigente, un’amministrazione pubblica, una università, una magistratura – il merito di aver costruito lo Stato italiano su solide fondamenta, offrendo un contributo decisivo, però effimero, forse il periodo migliore del nostro passato.
Eppure, su quei libri gravava un inspiegabile silenzio, rotto talvolta da altrettanto inspiegabili accuse contro i rispettivi autori. E dire che negli anni Ottanta libri di giovani storici che potessero minimamente compararsi con quelle tre corone ne circolavano davvero pochi. In proporzioni diverse, tanto Croce quanto Jemolo e Chabod avevano riconosciuto un ruolo eminente a figure di ebrei entrati nella vita politica del loro tempo. Dei tre il più prodigo di notizie su Isacco Artom era Federico Chabod. Un ritratto di fine acutezza psicologica, da cui traspare una profonda ammirazione: “Legato da viva amicizia personale col suo ministro, sì da esserne l’alter ego, esempio raro di quel che volesse dire l’affiatamento fra segretario generale e ministro, l’essere come due in uno ed uno in due”.
Un ritratto realista e non apologetico di uno “spirito acuto e sottile, non brillante ma solido, colto”; l’interesse manifestato da Chabod era il pretesto per tessere l’elogio di una intera classe politica ponendo l’accento su quello strano e diverso personaggio, “l’allampanato Artom”, che aveva saputo sostenere il peso massimo delle discussioni internazionali sulla questione romana. Non abbiamo molti ritratti di Isacco Artom, perché mai quell’aggettivo «allampanato»?
La nomina di Artom a nuovo segretario generale del ministero avveniva, sottolinea Chabod, con un guizzo di penna non casuale e un richiamo implicito al 1938 e all’antisemitismo subito da molti suoi colleghi, “nello stesso momento in cui il ministro faceva del Luzzatti il segretario generale all’Agricoltura, Industria e Commercio”.
Quel ritratto non poteva non meravigliare chi come chi scrive avesse di fronte l’Italia degli anni Ottanta. Una politica, scriveva Chabod, liberale ed europea, pacifica e fondata sulle forze morali; una politica attenta alla dignità della nazione, e pur moderata e conciliante, che trattava gli inevitabili incidenti con calma ‘considerandoli nel loro vero valore, non colla passione e coi puntigli’, e rifuggiva dal trasformare i piccoli incidenti in grandi questioni per non ‘creare quelle situazioni che s’impongono come una fatalità, senza che poi sia quasi impossibile spiegarne la genesi’. Una politica, di cui il ministro degli Esteri teneva saldamente le redini in mano, senza lasciarsi trascinare dalle suggestioni dell’uno e dell’altro dei suoi agenti all’estero, e soprattutto senza lasciarsi rimorchiare e trar fuori carreggiata dal furor consularis, sempre disposto a veder l’universo concentrato nella sede della propria giurisdizione e la salvezza del proprio paese dipendere dall’energico comportamento magari per una rissa in una bettola fra nazionali e stranieri. Una politica, infine, su cui anche i clamori della stampa non avevano la minima presa: i giornalisti dell’avverso partito alzavano alte grida di indignazione, e il ministro lasciava dire e tirava innanzi per la sua strada.
Parole meravigliose, un balsamo per chi aveva vissuto le sbandate ideologiche dei Settanta, non vedendo apparire nella classe politica italiana del presente (in politica estera, per esempio, di fronte alle sempre più gravi crisi del Medio Oriente, ma anche in altri scenari internazionali), qualche uomo politico che potesse vagamente emulare l’ideale di temperanza concretizzatosi in una così lontana situazione politica. Tutt’altro spettacolo s’era visto e si vedeva nell’Italia di Craxi e Andreotti: una classe dirigente, ma anche tanti uomini di cultura, universitari, intellettuali, storici che non avevano saputo diventare una forza alternativa, dopo che nel decennio precedente si erano lasciati “rimorchiare e trar fuori carreggiata dal furor consularis”, quando non dalle “risse da bettola” (che poi solo risse da bettola non erano state per nulla, negli anni del terrorismo).
Alberto Cavaglion
(25 agosto 2021)