Ebraismo ed estetica
Nel mondo ebraico persiste un luogo comune: che la poca considerazione dell’estetica visiva sia scaturita dalla proibizione biblica di creare immagini. “Non ti farai scultura né alcuna immagine di ciò che è in cielo al di sopra e in terra al di sotto e nelle acque al di sotto della terra: non ti prostrerai loro né presterai loro culto” (Es. 20.4-5; Deut. 5,8-9). Quel diniego viene posto a confronto con l’esistenza di una estetica “astratta”, comunque libera dal figurativo, che si concretizza nelle parole scritte e nel pensiero concettuale. Ma se osserviamo le comunità ebraiche ortodosse oggi, a prescindere da dove geograficamente risiedano, si constata che quell’argomento non viene considerato, e semmai l’arte è vista come una pratica superflua, degli “altri”, che si servono di “immagini” come mezzo di avvicinamento alla “loro” fede .
Il dettame biblico non solo non proibisce di interessarsi o occuparsi dell’arte ma indica nel bello uno dei mezzi volti ad accrescere il piacere, e con questo la disponibilità a seguire i precetti e di conseguenza un mezzo che avvicina alla fede ברכות נז שלושה מרחיבים דעתו של אדם, דירה נאה ואשה נאה וכלים נאים. Il cortocircuito sta nel rifiutare, a prescindere, di occuparsi di “cose” che potrebbero portare alla distrazione dagli studi e dalle “tradizioni”, evitando il rischio che si sviluppi una cultura di pensiero indipendente, allontanando possibili “tentazioni” nelle comunità ebraiche religiose che osservano le pratiche radicate.
Supplendo alla mancanza di una propria identità estetica di riferimento, gli ebrei hanno imparato ad attingere, a far proprie culture e tradizioni dei luoghi in cui risiedevano, esperienza che era già abitualmente praticata indispensabilmente con il cibo: le pietanze locali sono state riviste armonizzandole con le norme delle casherut, sostituendo, dove e quando risultava necessario, ingredienti e sostanze “proibite” con quelle “permesse”, adeguando processi di preparazione ai dettami ebraici (evitando sostanze lievitabili a Pesach o l’accensione di fuoco nel sabato). Oltre al cibo, gli ebrei lo hanno altrettanto seguito con il vestiario e la musica, facendo propri modelli, colori, ritmi e armonie dei loro vicini, fenomeni che sono rimasti presenti come peculiarità delle diverse comunità, fino ad oggi anche in Israele.
Il “melting pot” accelerator che lo Stato ebraico ha dovuto affrontare nelle prime due decadi dalla sua costituzione ha puntato sull’imposizione della lingua comune, l’ebraico, e sul consolidamento di uno “spirito nazionale” laico nuovo, mai effettivamente pienamente maturato, lasciando vivere le tradizioni religiose nelle loro sfaccettature. In seguito alla guerra dei sei giorni, è accaduto che il pubblico religioso, nella sua maggioranza, fino allora poco attento e coinvolto nella vita politica, abbia cominciato interessarsi e ad esprimersi su argomenti come i “Territori” e il loro futuro assetto politico, individuando in quegli argomenti una crescente affinità e potenzialità di rinvigorimento delle proprie file. Un piccolo partito religioso progressista, tradizionalmente presente alle coalizioni di governo dal ’48 ha dovuto soccombere a quella invasione di campo. Tendenza condivisa dalle maggiori comunità sia ashkenazite che sfaradite.
Temi fin allora di presagio della cultura laica, socialdemocratica, ancorati ad una ideologia, anche se tardiva, di valori dei movimenti risorgimentali europei. Lo stesso milieu considerava l’estetica come espressione culturale di riferimento, puntando a trovare una identità nazionale israeliana originale, attingendo dalle peculiarità dalle tradizioni delle comunità ebraiche provenienti dai quattro angoli della terra. Questo è accaduto, prima che le stesse comunità avessero maturato una vera consapevolezza delle propria.
L’atto emblematico e il “passaggio di consegne” dalla cultura politica sostanzialmente laica a quella, “confessionale”, da una cultura dove l’estetica va considerata un valore “etico” ad una cultura poco curante di quel legame in quanto “non prettamente ebraico”, è avvenuto con la formazione della spianata del Muro Occidentale a Gerusalemme. L’azione di dotare il Muro di un proprio “sagrato”, messo in pratica nell’euforia post guerra di sei giorni, ha di fatto sancito l’inizio di una promiscuità crescente tra la razionalità e la fede. Ha innescato ovvero dei fenomeni con sfaccettature messianiche alla gestione politica e culturale dello stato. Il pensiero che considera il “presente” una fase transitoria sulla via di una “entità ideale” che “verrà” non è certo nuovo neanche nel mondo ebraico, ma la promiscuità della fede religiosa con la gestione politica concreta di uno stato moderno in Israele ha avviato certamente un nuovo corso. Intanto l’immaginario “provvisorio“ della spianata legata al Muro di fatto, come un “non luogo”, è venuta a consolidarsi. Nessuno dei numerosi progetti elaborati per la risistemazione (oggetto di una mostra al padiglione israeliano alla Biennale d’architettura) volti a rimarginare quel vuoto, è riuscito cogliere i sufficienti consensi lasciando quel luogo notevole, in un desolante status quo, conteso tra svariate pratiche religiose, meta turistica, sito archeologico, non ultimo, piazza d’armi, nell’immaginario collettivo più che un luogo d’intimità religiosa, è un retorico ricettacolo di cerimonie.
L’attaccamento e il perseguimento di una convinzione ideologica , oltretutto quanto è considerata come sovrana, quando avviene in nome o per contro di, libera da responsabilità personale il singolo componente di quella “comunità”. Nel contempo, all’interno del proprio gruppo, i “singoli” sono considerati valorosi, perfino eroi, quando la loro militanza è esternata. Una organizzazione sociale politica, ideologicamente compatta, facilmente considera funzionali alla “causa” anche guasti ambientali, sociali, economici, politici, paesaggistici perciò estetici, che causano con le proprie azioni, sottomettendo a quel punto anche l’etica alla ideologia. Così, nelle costruzioni realizzate o progettate a Gerusalemme (l’inutile funivia verso il Muro o la urbanizzazione in Ir David), tutto ciò ne diventa palpabile testimonianza. La stessa violenza retorica è eclatante nella apologetica del pensiero di chi vive negli insediamenti, dove è consentito uno spazio risicato alla riflessione diversa da quella politicoreligiosa, in quando questa rientra tra i “precetti” religiosi/nazionalisti/storici da loro considerati comunque sovrani. L’immaginario e l’organizzazione urbanistica degli insediamenti li estranea dal luogo, di fatto, e contrasta con molti dei valori che loro dichiarano fondanti delle loro azioni.
Un infausto sinistro è avvenuto durante Lag Ba’omer del 2021 a Meron, accaduto per sovraaffollamento di fedeli contemporaneamente presenti alla Tomba di Rabbi Shimon bar Yochai, luogo, per sua stessa natura non adeguato, e probabilmente non adeguabile, a quel genere di assise. Nessuno, in primis gli organizzatori, hanno fatto un ragionamento sulle estreme conseguenze del fenomeno, lanciato in crescita continua nel tempo. A prescindere delle norme di sicurezza opportune, in quel genere d’occasione, probabilmente qui ambiguamente interpretate, la questione vera è la stessa ragione del raduno e l’effetto di eventi del genere sui luoghi di valore storico culturale.
L’individuazione delle eventuali responsabilità dell’accaduto, che una commissione governativa dovrebbe mettere a fuoco, come è nelle prassi di quelle istituzioni, suggerirà delle azioni per consentire la perpetuazione dell’evento. Saranno suggerimenti procedurali e soluzioni morfologiche a dare indicazioni sull’opportunità di “adeguare”, cioè formare, uno spazio “consono” per un appuntamento che è già il più esteso raduno religioso/popolare del paese. Il suggerimento non potrà che essere la formazione di una nuova smisurata spianata, moltiplicare e allargare le vie d’accesso e di esodo, ampliando parcheggi e, ormai che si “aggiorna”, posti per un’indotto commerciale e di servizi, analogamente a quelle del Muro Occidentale, senza badare alla sostenibilità storica e culturale nel senso lato del termine, alla stessa natura del sito nel suo insieme. Una operazione di “adeguamento” non potrà che compromettere gli stessi valori spaziali, paesaggistici, una ‘estetica ambientale’ dell’Har Meron, luogo relativamente isolato, intimo, senza il quale mancherà l’aspetto fondamentale, che lo ha portato a divenire culla della Cabbala. Invece di compromettere definitivamente un irripetibile insieme, sarebbe giusto traslocare “l’evento”, considerando che i valori e contenuti dell’Hillula (natura di quel festival) hanno un significato che potrebbe essere scisso dal luogo che lo ha generato. Sarebbe quanto mai opportuna una dislocazione, svolgere e festeggiare tutto negli stadi delle varie città, luoghi deputati, strutture attrezzate per accogliere dei raduni. Un crollo avvenuto in una sinagoga dei Karlin-Stolin a Givaat Zeev a Gerusalemme, edifico iniziato alla preghiera quando ancora in costruzione, oltretutto attrezzato con delle tipologie architettoniche prestate da quelle degli stadi, successo a soli 40 giorni dalla tragedia di Meron, ci ricorda che le sinagoghe sono state istituite prevalentemente dopo la distruzione del secondo Tempio, certo non in sostituzione del sommo edificio. Ma quei Mikdash meat (piccoli templi) hanno consentito una continuità nel praticare la ritualità. Altrimenti si sarebbe interrotta, sarebbe cessata.
David Palterer, membro di ICOMOS Israele
(26 agosto 2021)