Periscopio – Non negare

Dunque, nell’ultima puntata della nostra ricognizione sul tema “Dante e gli ebrei”, dello scorso 25 agosto, abbiamo sollevato la domanda di dove vengano collocati, nella grande tripartizione ultraterrena della Commedia, gli ebrei vissuti prima del cristianesimo. E quelli dopo?
Dove sono gli ebrei giusti, non diventati cristiani, vissuti nell’era volgare?
È chiaro che il loro posto, secondo la logica dantesca, dovrebbe essere nel Limbo. Si salverà, com’è noto, il pagano Traiano, ma, appunto, solo perché Dio esaudisce la preghiera di Gregorio Magno, e – per i suoi meriti eccezionali sul piano della giustizia – lo fa resuscitare per ricevere il battesimo (Purg. X.74-93, Par. XX.43-48). Ma chi non abbia ricevuto questo privilegio, resterà nel Limbo – che è pur sempre parte dell’Inferno -, come i musulmani giusti. Ma, come abbiamo visto, nel castello degli Spiriti Magni – dove sono confinati, “tra color che son sospesi”, Saladino, Avicenna e Averroè – di ebrei non ce ne sono. Che sia una dimenticanza casuale, come abbiano detto, è assolutamente da escludere. Dante conosceva bene, per esempio, Rashi, Nachmanide e Maimonide, non può non essersi posto il problema della loro collocazione.
Il poeta, a mio avviso, sceglie di non rispondere alla domanda. Non dice che siano nel Paradiso, ma, volutamente, non lo nega.
Prima di cercare di interpretare il senso di questa “non negazione”, ritengo però opportuno fare tre piccole precisazioni.
La prima, forse ovvia, è che la visione teologica di Dante riflette pienamente – con alcune modifiche, non particolarmente rilevanti – la dottrina tomistica, prevalente al suo tempo, a sua volta, com’è noto, fortemente debitrice verso la filosofia aristotelica. Come teologo Dante non è particolarmente originale o creativo, e non è certo alla sua ideologia che è dovuta la sua universale ed eterna fama. Dante è grande, immenso solo come poeta. Qualunque soluzione egli avesse scelto di adottare riguardo al destino ultraterreno degli ebrei, essa non avrebbe inciso sulla forza della sua poesia, né le sue scelte possono avere alcun interesse per chi si interroghi sulla funzione metastorica dell’ebraismo. La teologia di Dante è chiusa nel Medioevo, la Chiesa di oggi non parla affatto con le sue parole, e Israele non ha bisogno di nessun “attestato di salvezza” esterno, per quanto di autorevole provenienza.
La seconda precisazione è che Dante, nella Commedia, non è chiuso al mistero. Non esita a manifestare la propria personale sofferenza, di fronte all’impossibilità di spiegare qualcosa che non può essere compreso dall’umana ragione: lo fa, per esempio, nel settimo Canto del Paradiso, dove chiede a Beatrice come sia possibile che Gesù, in quanto uomo, fosse ‘oggettivamente’ colpevole, tanto da meritare la morte. E, come illustreremo prossimamente, tutto lascia pensare che una domanda analoga venga da lui posta – implicitamente – relativamente alla distruzione di Gerusalemme, come punizione collettiva del popolo ‘deicida’. Come poteva il popolo di Israele essere, nel suo insieme, ‘oggettivamente’ colpevole, tanto da meritare la perdita della propria patria? Agli uomini non è dato di capire, con la sola forza della ragione, i misteri della fede: “State contenti, umana gente, al quia,/ ché, se potuto aveste saper tutto,/ mestier non era parturir Maria” (Purg. III. 37-39).
La terza è che il dubbio di Dante è ancora attuale, tutt’oggi irrisolto dalla teologia cattolica. Solo di recente la Commissione pontificia sui rapporti con l’Ebraismo è tornata a interrogarsi, per l’ennesima volta, sul problema della salvezza del popolo ebraico. Alla severa posizione tradizionale (pur non assurta a livello di dogma), implicante la dannazione del popolo ebraico, si è affiancata la nuova ipotesi post-conciliare secondo cui gli ebrei potrebbero salvarsi grazie unicamente all’osservanza della Torah. Ma entrambe le soluzioni sono state rigettate, e la questione è stata, per ora, archiviata come ‘mistero’, in attesa di soluzione.
Ma cosa può avere indotto Dante, dunque, a “non negare” la salvezza di Israele?
Secondo me, due considerazioni, la prima delle quali espongo qui di seguito, rimandando la seconda alla prossima puntata.
I musulmani giusti, che Dante vede (e ammira) nel Limbo, sono i seguaci di quello che il poeta considera un grave scisma del cristianesimo, tanto da riservare al suo ideatore, Maometto, la crudele punizione che gli è inflitta nel girone dei provocatori di divisioni e discordie, nonché le note, violente parole di esecrazione e disprezzo, che, sui banchi di scuola, non ci venivano fatte leggere (Inf. XXVII. 22-31). All’origine del popolo d’Israele ci sono invece le sante e benedette figure di “Abraàm patriarca” e “Moisè legista e ubidiente” (Inf. IV. 57-58). La condizione degli ebrei giusti è molto diversa da quella degli islamici giusti, i due popoli non possono avere lo stesso destino.

Francesco Lucrezi