La lettera scarlatta

Il grado più elevato di censura, in fondo, è l’autocensura. Quest’ultima funziona nel “migliore” dei modi quando viene interiorizzata al punto tale da filtrare le parole e le scelte senza che colui che ne sia condizionato se ne renda conto fino in fondo. Ossia, impedendogli di comprendere quale sia invece il reale grado di amputazione che si sta imponendo, quand’anche si trovi in una condizione di assenza di vincoli oggettivi. Per capirci: si parla di censura non nel caso in cui l’individuo si conformi a degli standard condivisi, senza i quali la società, peraltro, non potrebbe funzionare da sé sola; mentre invece questa sussiste laddove una condotta personale, del tutto legittima, venga inibita per comune convenzione, in assenza di altra necessità che non sia quella di limitare la libertà di ideazione e condotta degli individui. In altre parole: il blocco della circolazione al semaforo rosso non limita nessuna libertà (di movimento) ma la regola nell’interesse di tutti (e quindi anche di quello personale). Il rispetto di una tale norma è indice di responsabilità, verso se gli altri ma anche nei confronti di se stessi. L’impedimento subentra invece quando, senza che vi sia alcuna motivata ragione di interesse collettivo, una o più persone siano impedite (o si impediscano immotivatamente, in virtù solo del timore di una qualche sanzione sociale e morale) a transitare sotto quel semaforo quando questo è di colore verde. La discriminante non sta nella condotta comune rispetto al singolo colore delle lampadine ma nella piena o nulla libertà di circolazione, per certuni piuttosto che per altri, in quel determinato crocevia. La censura, e con essa l’introiezione autocensurante, si basa essenzialmente sul meccanismo elementare dell’inibizione: non faccio una determinata cosa, oppure non la dico, non perché sia convinto che ciò risponda a legittimità e giustizia ma poiché temo la punizione che ne potrebbe altrimenti derivare. Non è quindi educazione ma ammaestramento. Molto spesso la censura si accompagna anche alla percezione di un’illegittima insensatezza: mi astengo dal dire, professare, fare, manifestare ma vivo tutto questo come una costrizione. Ossia, non sono per nulla convinto della necessità, e ancora meno della bontà, di una tale condotta ma, per il mio “bene”, ovvero per evitare ritorsioni, mi impedisco una certa condotta che so essere sanzionabile. Quand’anche tutto ciò sia, per il medesimo buon senso, del tutto privo di costrutto. Mentre nell’autocensura, che introietto in me stesso al pari di una sorta di automatismo, decade anche quest’ultima cognizione. Non c’è bisogno di scomodare George Orwell, non almeno questa volta. Non necessita richiamare l’ombra di un regime politico totalitario, che si impone come una pesantissima cappa di ferro e acciaio sulle esistenze degli individui. Valeva senz’altro nel Novecento. Mentre le cose si dispongono diversamente nell’età del controllo capillare (ed invisibile) per il tramite dell’economia dell’informazione e della conoscenza. Ogni forma di censura è infatti basata – a prescindere dal suo essere o costituire prodotto politico, culturale o civile – sull’aspetto comune della deformazione della nozione di «limite». Capiamoci: è limite positivo non ciò che vincola insensatamente ma quel che concorre a fare godere appieno delle libertà individuali in un contesto pubblico. Ed è contesto pubblico la somma degli spazi, non solo fisici, in cui interagiscono contemporaneamente più individualità, che debbono necessariamente amalgamarsi, a costo – altrimenti – di rompere la coesione sociale, rendendo quindi impossibile il continuare a stare insieme. Il web ha sempre più spesso una grande parte nel merito di quest’ordine di riflessioni, posto che è un “non luogo” presente ovunque, nel quale, giocandosi le infinite manifestazioni di soggettività di quanti si “muovono” in esso, si esercitano anche identità, passioni, libertà come giudizi e, non di meno, pregiudizi. Peraltro, già nel diciannovesimo secolo, il filosofo John Stuart Mill, nel suo «Saggio sulla libertà», parlava non tanto delle restrizioni governative alla libertà umana, come tali calate dall’alto, bensì della minaccia posta dal conformismo sociale, ovvero dalla «richiesta che tutte le altre persone assomiglino a noi». In una situazione che tende a capovolgersi nei fattori ma non di certo nel segno, oggi il conformismo sembra assomigliare assai di più all’aspettativa che ognuno di noi nutre di assomigliare agli altri. Magari fingendosi irripetibile. Il rischio di un’ondata neopuritana, esportata dai paesi anglosassoni ma in larga diffusione anche nel Vecchio Continente, sta dietro l’angolo. Si coniuga ad una pluralità di fattori, legati senz’altro all’epoca che stiamo vivendo, e alle incertezze che essa genera. Infatti, si vieta soprattutto quando si è in una condizione d’incertezza, quasi che imporre vincoli e limiti, tanto più surrettiziamente e coattivamente, possa servire da filtro rassicurante nei confronti di una realtà fatta di rapporti e relazioni sociali che sembrano altrimenti sfuggire a qualsiasi criterio di gestione concordata. Rimane il fatto che il divieto censorio non risponde a cognizione né a ragione bensì ad una qualche forma di amputazione personale. Più o meno grave. Anche qui, in altre parole, la censura, altrimenti giustificata come necessità per la sicurezza comune, non aiuta nessuno ad emanciparsi, facendolo semmai maggiormente schiavo delle circostanze e del giudizio di senso comune. Che fai poi in fretta a trasformarsi in pregiudizio, ossia una convenzione ideologica, ripetuta infinitamente, senza più bisogno di alcun riscontro. Il neopuritanesimo, come forma di controllo sociale, risponde allora ad una precisa tipologia, che già una giornalista e saggista sagace come Anne Applebaum (segnatamente, una delle migliori studiose dei sistemi costrittivi del regime sovietico) ha avuto modo di mettere recentemente in rilievo. Quattro passaggi si susseguono. Il primo di essi si ha quando chi, identificato come reo di qualcosa e come tale stigmatizzato, viene pertanto isolato poiché considerato non solo colpevole ma anche socialmente tossico, inquinante, comunque sgradevole, a prescindere da come si comporti concretamente. Il secondo è l’impedimento di continuare a svolgere le attività della propria vita quotidiana, quanto meno con la necessaria serenità. Fino al decadimento dalla posizione lavorativa, cosa diffusa negli Stati Uniti (ed utilizzata anche per screditare concorrenti ed avversari). Il terzo passaggio è l’obbligo di scusarsi pubblicamente, quand’anche non si sappia per quale ragione ciò debba essere fatto. Il riscorso alle scuse è “ovviamente” inteso come un’ammissione di colpa. In genere, nessuna richiesta di un qualche perdono viene accettata, implicando che la dose di accuse sia semmai rincarata. Il quarto transito è l’ossessiva attenzione su tutti gli aspetti della vita, pubblica e privata, dell’accusato, alla ricerca maniacale di qualsiasi cosa possa comprovare una sua qualche responsabilità, anche differente dai motivi per cui si sono mosse i primi rilievi critici e polemici. La macchina dell’accusa neopuritana – che ricalca, sul piano civile, alcuni aspetti dei sistemi di costruzione delle colpe che i regimi totalitari hanno messo in atto durante il loro dominio dittatoriale – ha due obiettivi principali: distruggere la reputazione di chi ne è bersagliato e creare solidarietà e reciprocità in quanti si ergono a suoi giudici inappellabili. Ciò che ne deriva, nel nome di una qualche “purificazione” da elementi, condotte, parole se non anche pensieri, è quindi un asfissiante neoconformismo, dove per l’appunto l’istanza censoria viene interiorizzata come l’unica, plausibile ancora di salvataggio. Ancora una volta, in un eterno processo di eterogenesi dei fini, il bersagliamento critico di comportamenti discutibili, rischia di tradursi in un filtro maniacale di qualsiasi modo di fare in pubblico, alla ricerca ossessiva di un capo di imputazione. Che si estende da subito alla vita privata del bersagliato, investito da un alone di immoralità. L’onere della prova, in questo caso, ovviamente compete all’accusato, non all’accusatore. Il primo sarà sempre in debito, il secondo in credito permanente. L’illiberalismo è allora dietro l’angolo, posto che la censura, l’oblio, la persistente messa in stato di accusa, il dileggio istituzionalizzato, la stigmatizzazione civile e morale, le scuse strumentalizzate, sono comportamenti tipici delle società a democrazia ridotta (o in via di ridimensionamento), con codici culturali rigidi, in cui la comunità gioca un ruolo decisivo. Oggi, gli agenti di massa del neopuritanesimo, al netto di quei politici e degli intellettuali che se ne fanno latori per calcolo di proprio beneficio, non sono le folle inferocite, raccolte nelle piazze. Semmai somigliano maggiormente ai sciami online organizzati su Twitter, Facebook, Telegram e così via. Laddove il mezzo è anche messaggio poiché accusare, e quindi odiare, aiuta a saldare vincoli di reciprocità attraverso il ricorso ai medium digitali. Ed al consumo di essi. Soprattutto quando non si sa cosa implichi e come si faccia invece ad esprimere una solidarietà positiva. Il neopuritanesimo fa da cornice a questo processo sociale. Non può essere liquidato tanto facilmente, in quanto sbavatura occasionale. Come spesso è accaduto anche nel passato, nasce da istanze legittime, di giustizia sociale, tuttavia trasformandosi in un rafforzamento degli strumenti di coercizione culturale e civile. Rischia quindi di consegnarci società non più plurali ma maggiormente intimidite e, quindi, conformiste. Da qui bisogna forse ripartire, nelle comuni riflessioni.

Claudio Vercelli

(5 settembre 2021)