Calciatrici afghane in salvo,
dietro l’operazione umanitaria
l’impegno di un rabbino newyorkese

Nel cielo d’Afghanistan, da un po’ di tempo ormai, non si librano più gli aquiloni cari allo scrittore Khaled Hosseini e a milioni di suoi connazionali. Un’attività intollerabile per la leadership talebana che già l’aveva accantonata 25 anni fa, in occasione della prima ascesa al potere. Diniego sintomatico di un’insofferenza profonda verso tutto ciò che è sport, divertimento, evasione.
L’ossessione “purificatrice”, in perfetta continuità con il passato, prende ora la forma di un nuovo bando specificamente rivolto all’universo femminile. Alle donne, ha reso noto un rappresentante del nuovo governo di Kabul, sarà infatti vietata la pratica di qualunque disciplina agonistica in cui sia prevista l’esposizione di “facce e corpi”.  
Non un fulmine al ciel sereno, ma qualcosa di tristemente atteso da giorni. E che potrebbe essere il preludio a nuove persecuzioni verso chi, faccia e corpo, li ha messi al servizio di una causa importante. Come le atlete della nazionale di calcio ambasciatrici di una possibile emancipazione, sviluppatasi nel corso dei vent’anni di presenza occidentale, che appare oggi tramontata.
L’operazione per metterle in salvo ha mobilitato un vasto numero di persone, Italia compresa.
Un ruolo significativo – racconta la stampa ebraica americana – sembra averlo avuto un rabbino.
Il suo nome è Moshe Margaretten, vive a New York ed è il fondatore e presidente di una realtà chassidica attiva in ambito umanitario. Di lui si è iniziato a parlare al principio della crisi per via del coinvolgimento in una missione complessa: trarre in salvo da Kabul l’ultimo ebreo del Paese, Zebulon Simantov. Un’offerta d’aiuto rifiutata dal diretto interessato che, esponendosi a un grave pericolo personale, almeno in un primo momento ha preferito restare nella Capitale (salvo poi lasciarla in modo avventuroso: le ultime notizie lo danno infatti in salvo oltreconfine).
Ciò non ha comunque distolto il rabbino dal suo impegno, anche attraverso una raccolta fondi che ha permesso lo stanziamento di risorse significative. A beneficiarne alcune calciatrici, ma anche altre categorie a rischio: in particolare donne e bambini.
“I miei nonni sono sopravvissuti alla Shoah fuggendo dai nazisti. La mia famiglia ha sperimentato sofferenze non dissimili da quelle che queste persone stanno vivendo oggi. Per aiutarle – il suo messaggio – abbiamo il dovere di fare tutto quello che è nelle nostre possibilità”.
Il rabbino non ha voluto fare nomi e cognomi. Khalida Popal, l’ex capitana della nazionale femminile, in un tweet ha parlato comunque di “aiuto incredibile in questo sforzo congiunto per salvare delle vite umane”.

(Nell’immagine il rabbino Margaretten con una famiglia afghana al suo arrivo negli Stati Uniti)

a.s twitter @asmulevichmoked

(9 settembre 2021)