La Cassazione e il crocifisso,
un infelice compromesso
Con la sentenza n. 24414 del 9 settembre 2021, pubblicata ieri, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione si sono pronunciate su una questione di massima ritenuta di particolare importanza, ossia l’affissione del crocifisso nelle scuole pubbliche.
Non è certo la prima volta che la questione del crocifisso nelle scuole viene alla ribalta delle aule di giustizia oltre che dei giornali e delle coscienze civili, perché è questione che ha a che fare con principi cardine di ogni società civile e democratica che si rispetti, primo fra tutti la laicità dello Stato e la conseguente neutralità negli affari religiosi. È però la prima volta che la più alta autorità giurisdizionale del nostro ordinamento viene investita di un problema su cui negli ultimi quindici anni si erano espressi in modo difforme altri organi giurisdizionali
In particolare, il Consiglio di Stato, con la storica sentenza 13 febbraio 2006 n° 556, aveva stabilito che il crocifisso deve restare nelle aule in quanto “simbolo di valori civili”, ovvero di laicità passiva. Dal canto suo, la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo il 3 novembre 2009 aveva stabilito in primo grado che il crocifisso nelle aule è “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione”, mentre in secondo grado, il 18 marzo 2011, la Grand Chambre aveva sostenuto che non sussistono elementi che provino l’eventuale influenza sugli alunni dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Arriva ora la Cassazione, investita sulla compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto statale sulla base di una delibera assunta dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete.
Ed ecco la novità introdotta dalla Suprema Corte: la disposizione dei Regi Decreti n. 965 del 1924 e n. 1297 del 1928 – che tuttora disciplinano la materia, stabilendo che “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re”- è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione: “L’aula può accogliere – sono le parole della Cassazione – la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”.
Vengono dunque affermati importanti principi di diritto, frutto peraltro di evidenti pratiche compromissorie, per cercare di tenere i piedi nelle molte “staffe” di cui la società è permeata. E come in ogni compromesso che si rispetti, sicuramente anche la pronuncia delle Sezioni Unite segna per certi versi una svolta innovativa, mentre rimangono ancora zone grigie che non sembrano poter delineare sul piano pratico un’effettiva applicabilità dei principi irrinunciabili di laicità e neutralità dello Stato in materia religiosa.
Se da un lato è evidente e positivo che in base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita, nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso, d’altro lato il principio può diventare di difficile attuazione. In base al r.d. n. 965 del 1924, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, e va interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento, la comunità scolastica può decidere di esporre il crocefisso in aula con valutazione frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un “ragionevole accomodamento” tra eventuali posizioni difformi.
Se è sicuramente importante il riferimento implicito al pluralismo religioso e culturale caratterizzante l’odierna società, non sembra la miglior scelta quella operata nel lasciare alle singole autonomie scolastiche la decisione se apporre o meno il crocifisso sulle pareti delle aule. Sarebbe un’autonomia che deve far i conti anno per anno con studenti e docenti che cambiano, presenze e orientamenti diversi, che rischierebbe di creare discussioni e tensioni difficilmente componibili.
E se nella ricerca dell’accomodamento emergesse una maggioranza favorevole all’apposizione del crocifisso, la minoranza dissenziente non avrebbe in realtà un potere di veto o di interdizione assoluta rispetto all’affissione. Giustamente, peraltro, nel caso concreto che ha dato origine alla pronuncia, le Sezioni Unite hanno rilevato che la circolare del dirigente scolastico, consistente nel puro e semplice ordine di affissione del simbolo religioso, non era conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità.
Forse la via maestra da percorrere, per garantire il supremo principio della laicità dello Stato non era, oltre a quella dell'”accomodamento ragionevole”, del confronto, della “ricerca, insieme, di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni”, neppure la possibilità di esporre, unitamente al crocifisso, simboli di altre religioni. Lo si comprende già dalle prime reazioni di esponenti di organizzazioni che si occupano di affari religiosi e che interpretano in maniera opposta il principio espresso dalla Cassazione. Il segretario generale della Cei così si è espresso: “I giudici della Suprema Corte confermano che il crocifisso nelle aule scolastiche non crea divisioni o contrapposizioni, ma è espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria”, mentre il responsabile dell’Uaar, l’Unione degli atei e agnostici razionalisti, ha commentato: “È stata finalmente sancita nero su bianco la non compatibilità del crocifisso con lo stato laico”.
Non possiamo non ricordare a questo proposito un passaggio della menzionata sentenza dei Giudici di Strasburgo quando si è affermato che “pur consapevoli di incamminarsi su di un sentiero impervio e talvolta scivoloso, non si può fare a meno di rilevare come il cristianesimo e anche il suo fratello maggiore, l’ebraismo – almeno da Mosé in poi e sicuramente nell’interpretazione talmudica – abbiano posto la tolleranza dell’altro e la difesa della dignità dell’uomo, al centro della loro fede, la libertà e la dignità di ogni uomo, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e infine la stessa laicità dello Stato moderno”. Invero, i simboli religiosi in genere implicano un meccanismo di esclusione, perchè il punto di partenza di ogni fede religiosa è appunto la credenza in un’entità superiore, per cui gli aderenti, ossia i fedeli, si trovano per definizione e convinzione nel giusto: di conseguenza inevitabilmente, l’atteggiamento di chi crede rispetto a chi non crede è di esclusione.
È evidente che la presenza obbligatoria e ostentata del crocifisso nelle aule scolastiche era tale non soltanto da offendere le convinzioni laiche e da turbare gli alunni professanti una religione diversa da quella cristiana o non professanti alcuna religione, proprio perchè lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nell’ambito dell’istruzione pubblica. Viviamo ormai in una società multiculturale, nella quale la tutela effettiva della libertà religiosa e del diritto all’educazione richiede una rigorosa neutralità dello Stato nell’insegnamento pubblico, che deve favorire il pluralismo educativo come elemento fondamentale di una società democratica, non attraverso l’affissione di tanti simboli (e quanti?) alle pareti di un’aula, ma attraverso la trasmissione dei principi di uguaglianza di tutti cittadini e del conseguente divieto di ogni discriminazione. Principi dalla cui applicazione non può che derivare che lo Stato deve adottare un atteggiamento di totale imparzialità nei confronti delle credenze religiose, proprio al fine di garantire la libertà di coscienza, il pluralismo, l’effettiva parità di trattamento delle credenze e la laicità delle istituzioni.
Giulio Disegni, giurista
(10 settembre 2021)