La rappacificazione necessaria
La nostra parashà inizia con le parole: “Vajelekh Moshè – E andò Moshè” (Devarìm 31;1)
I mefareshim si chiedono dove realmente andò Moshè, visto che il testo non è del tutto chiaro.
Questa parashà capita spesso nel periodo che va da Rosh haShanah a Yom Kippur, periodo chiamato anche “‘aseret jemé teshuvà – dieci giorni penitenziali”. Il nostro dovere è quello, in previsione del grande giorno di espiazione – Yom Kippur, di rivolgerci a coloro con cui abbiamo avuto, durante l’anno, un rapporto burrascoso e riappacificarci con essi.
La Halakhà prevede che se entro Kippur non abbiamo perdonato chi ci ha offesi e non ci siamo fatti perdonare da chi abbiamo offeso, il digiuno e le preghiere di Yom Kippur non abbiano alcun valore.
Non basta riconciliarsi con D-o per essere perdonati, bisogna prima esserlo dai nostri simili.
I maestri debbono essere l’esempio da seguire; persino un grande chakham, se ha offeso qualcuno, prima di Kippur ha il dovere di rivolgerglisi chiedendogli perdono.
Questo è quello che impariamo da Moshè rabbenu nella nostra parashà.
Si sta avvicinando il giorno della morte di Moshè. Prima di andarsene definitivamente da questo mondo, scese dal suo “trono” per andare a cercare il perdono da tutti i componenti del popolo, grandi e piccoli, riappacificarsi con loro e chiedere loro perdono prima di dirgli definitivamente “shalom”.
Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
(9 settembre 2021)