Storie di Libia – Yoram Arbib / 2

Yoram Arbib, ebreo nato a Tripoli in Libia, nella seconda parte dell’intervista (clicca qui per la prima) approfondisce la memoria storica. Durante la Shoah, nel 1942, il Muftì di Gerusalemme, che aveva rapporti con Hitler e Mussolini, aveva per obiettivo anche quello di sterminare l’ebraismo libico e di appropriarsi di tutti i beni degli ebrei. Storicamente abbiamo riscontro nel suo diario che fu presentato durante il processo ad Adolf Eichmann nel 1961 a Gerusalemme.
Il rapporto arabo-musulmano con i nazisti esisteva dall’inizio della Shoah ed è stato riallacciato contestualmente all’arrivo degli scienziati nazisti in Libia negli anni ’60 con scopo quello di istruire l’amministrazione locale sul come sterminare gli ebrei: un tema di cui abbiamo parlato nella precedente intervista. Molte azioni discriminatorie venivano perpetrate abitualmente, come mandare agenti segreti nelle sinagoghe durante ogni preghiera. Era stato proibito di nominare “Israel” durante le preghiere e durante i riti funebri quando si accompagnavano i morti al cimitero. Malgrado il governo avesse riconosciuto i diritti civili degli ebrei, questi non vennero mai messi in pratica: gli ebrei di Libia restavano senza cittadinanza, apolidi nella loro patria, e quindi non potevano effettuare transazioni e azioni commerciali. Per una legge del 1962 se un ebreo voleva acquistare un bene immobile o aprire un’attività commerciale doveva regalare il 51% ad un arabo anche se l’arabo non partecipava economicamente. Chi aveva il passaporto libico aveva una segnalazione numerica in cui era immediatamente riconoscibile nella sua ebraicità. In realtà era solo un documento di viaggio, non un documento che corrispondeva alla cittadinanza. Tutto questo malgrado gli ebrei libici e Israele avessero votato in favore dell’indipendenza libica.
Per i musulmani restavano sempre cittadini dhimmi e se dovevano fare un viaggio all’estero erano obbligati a lasciare in ostaggio un membro della famiglia. L’ebreo, colpevole di essere ebreo, per non essere ucciso era obbligato a pagare una multa. Nel 1947 l’amministrazione britannica aveva fondato un tribunale locale in Libia e uno dei giudici era il padre di Yoram, altri erano arabi. Il tribunale fu soppresso una volta ottenuta l’indipendenza così come fu impedito far arrivare maestri o rabbini che potessero insegnare l’ebraismo. Nel 1965, all’interno della comunità, ci fu una discussione perché alcuni volevano costruire una nuova sinagoga mentre suo padre lo trovava assurdo visto che non c’erano scuole ebraiche dove imparare a leggere. Questa sinagoga, Bet El, fu costruita e dopo un anno venne bruciata durante il pogrom del giugno del 1967.
Dal giugno 1967 tutti i beni del padre furono confiscati dal re Idris e da quel giorno nulla potè essere recuperato. I beni del padre furono riconfiscati con i beni degli italiani espulsi da Gheddafi nel 1970.
Yoram e la sua famiglia partirono per l’Italia il 28 giugno 1967. L’unico rapporto con gli arabi era strettamente commerciale, essendo obbligati ad avere soci di maggioranza arabi nelle loro attività di import export con la Russia. La famiglia di Yoram possedeva anche il palazzo di 36 camere sede dell’ambasciata russa. Nel periodo del maggio 1967 l’Italia aveva mandato sulle coste della Libia tre navi da guerra perché si presagivano situazioni pericolose. Il governo libico aveva dichiarato il 5 giugno giornata di apertura della raccolta di fondi per la Palestina e fu il re ad iniziarla offrendo 10.000 sterline libiche. C’erano tavoli lungo le strade in cui ogni ebreo, per poter passare, doveva lasciare un’offerta. Dal 2 giugno i sermoni nelle moschee erano antisemitici e invocanti l’assassinio. Il 5 giugno Yoram era a scuola e il padre entrò all’improvviso, raccolse tutti i ragazzi ebrei, li portò a casa finché i genitori non vennero a prenderli. Da quel momento per 23 giorni rimasero chiusi a casa. Una linea telefonica era tenuta sotto controllo perché il padre era una persona importante e riceva telefonate da tutti gli ebrei influenti del paese, mentre l’altra (come tutte quelle degli ebrei di Libia) venne staccata. Il padre mandava lettere a tutti gli uomini importanti e religiosi musulmani, chiedendo di diminuire l’odio nei sermoni: venne ascoltato. Il primo sabato dopo l’inizio del pogrom cercarono di incendiare la casa e i pompieri se ne rimasero fermi a guardare. Da quel giorno con le poche armi in loro possesso facevano sentinella ma nuovamente tentarono di incendiare la casa. L’ultima lettera, scritta il 17 giugno 1967 al Primo Ministro Libico Hussein Mazegh, chiedeva di permettere ad ogni ebreo di poter uscire dal paese per almeno tre mesi, sperando si potesse fermare la situazione. Venne dichiarata di importanza storica rilevante per la salvezza degli ebrei di Libia. Dopo questa lettera arrivano quattro ufficiali e lo interrogarono per sapere come facesse a sapere i nomi delle persone uccise e i danni provocati. Così vennero ad un accordo: ad ogni ebreo sarebbe stato possibile uscire dalla Libia con un documento di viaggio. Grazie all’aiuto di un autista italiano riuscì a far pervenire all’American Joint una lettera di sos, gli fu risposto che si sarebbero incontrati in Italia. Arrivato a Roma, il padre allestì insieme a Hai Glam (ex presidente della comunità di Zliten) e Susu Giuli (ex presidente della comunità di Bengasi) un Comitato per l’assistenza degli ebrei espulsi dalla Libia. Insieme cercarono di portare avanti alcune iniziative. Con l’aiuto dell’American Joint e altri personaggi importanti, quali il rabbino Elio Toaff ed il presidente della comunità ebraica di Roma Piperno Beer, riuscirono ad occuparsi del ristabilimento degli ebrei espulsi dalla Libia e ad evitare il ritorno di quanti avevano in mente di tornare nel Paese organizzando la loro accettazione nei campi profughi di Capua e Latina. La loro vita fu salva. Molti ebrei, quando il padre andò a trovarli nei campi profughi, furono felici di vederlo e gli dissero che sapevano che non li avrebbe abbandonati.
A parere di Yoram, in base alle documentazioni storiche raccolte, il pogrom contro la collettività ebraica della Libia nel giugno del 1967 era premeditato e programmato in ogni piccolo dato, a prescindere dalla guerra intrapresa fra Israele e i paesi arabi.
Il governo libico aveva programmato lo sterminio degli ebrei di Libia nello stesso modo in cui furono sterminate le famiglie Raccah e Luzon: in pozzi di calce viva affinche non rimanesse nessuna traccia.
Nell’ultima parte dell’intervista, in cui chi scrive sottopone le domande fatte agli altri intervistati, Yoram racconta di aver trasmesso ai suoi figli la parte storica degli eventi e le usanze che fanno parte dell’essere ebreo in tutto il mondo. Ha anche raccontato che, pur essendo stati molto facoltosi, in Libia vivevano in una sorta di gabbia d’oro, senza diritti e senza possibilità di espressione. Yoram vive in Israele da molti anni e non ha mai provato nostalgia per la Libia. Sente nostalgia per l’innocenza della vita. Nulla lo attrae della Libia.
“La persona a cui Iddio ha fatto un miracolo non si accorge del miracolo ricevuto”.
Lui ritiene che, nonostante il trauma dell’espulsione, dal punto di vista spirituale ebraico tutto ciò che è successo sia stato un bene.
“Gli arabi non permettevano di far arrivare libri o religiosi o rabbini per educare i giovani” e “Se non fosse accaduto il pogrom”, afferma, “saremmo comunque stati destinati allo sterminio spirituale”. Difatti già i suoi fratelli più grandi per continuare a studiare si erano dovuti trasferire all’estero e lui e i ragazzi giovani per studiare potevano solo frequentare le scuole italiane o inglesi. Non era permessa nessuna attività culturale ebraica.
Yoram si sente a casa in Israele, e come dice un proverbio arabo, “Questo è il luogo dove ci ha dedicato D.O.” Non crede ad oggi di poter stare meglio da tutti i punti di vista.
Qualsiasi iniziativa del padre per recuperare quanto perduto in Libia venne bocciata dagli ebrei libici. Il padre, da poco in Italia, tentò di effettuare il pignoramento di un aereo di linea libico ma nessuno si schierò con lui. Yoram reputa positiva l’iniziativa di cause per “nemesis” storica contro l’Inghilterra per i pogrom del 1945 e del 1948, l’Italia per le leggi razziste e la Libia per tutti i danni fisici, morali e materiali e ancor di più per fare onore ai nostri antenati le cui tombe centenarie sono state sradicate e per il tentativo della Libia di cancellare con la forza e crudeltà nazista il nostro passato come fondatori e sostenitori del paese. Le tombe degli antenati sono state distrutte e i cimiteri rasi al suolo. Ma la comunità, sostiene, purtroppo non ha risposto unita.
Yoram ritiene che sia inutile fare una lapide in memoria in Libia.
Ritiene che debba essere messa la storia davanti al criminale. Un proverbio arabo dice “accompagna il ladro fino alla porta di casa” per smascherarlo. L’unica lotta che vale la pena fare è far vivere la memoria, pubblicare le ricerche storiche in più posti possibile e fare in modo che vengano lette. Riguardo il preservare ciò che è rimasto in Libia crede che non sia rilevante. Inutile restare legati ad un paese dove gli arabi hanno tentato di sterminarci. Ritiene fondamentale che il mondo sappia quello che gli arabi hanno fatto: cancellare migliaia di anni di presenza storica degli ebrei con un colpo di spugna! Le pietre non sono più importanti di questo.
“La vendetta è divina, non spetta a noi farla”, afferma. E poi aggiunge: “La cultura degli ebrei di Libia ha molto da insegnare, abbiamo superato tante tirannie, eppure esistiamo con tutte le nostre usanze rituali e liturgiche grazie alla nostra forza morale ed il nostro sentimento di umiltà ebraica.
Purtroppo gli ebrei di origine libica sono individualisti, ma io conto in un futuro in cui le persone si uniranno per uno scopo comune”.
L’intervista termina con un passuk che Yoram ci dedica: “Vedendo sempre la Divinità davanti ai miei occhi non ho paura di cadere”.

Clicca qui per vedere l’intervista in video

(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(13 settembre 2021)