Periscopio – Le colpe secondo Dante
Abbiamo dunque detto, nei nostri interventi delle scorse settimane, che Dante “non nega” che gli ebrei vissuti dopo l’inizio del cristianesimo possano accedere al Paradiso. Tra i motivi di questa “porta socchiusa” abbiamo indicato il fatto che musulmani ed ebrei non possono avere, nel mondo ultraterreno, la stessa destinazione, dal momento che i primi (confinati nel Limbo) sono i prosecutori di un grave scisma, mentre i secondi restano i discendenti di una “santa radice”, pur essendosi macchiati, secondo la Chiesa dell’epoca, di una grave colpa. In entrambi i casi siamo al cospetto di una forma di responsabilità oggettiva, ma, come abbiamo detto, la prima è di tipo genetico, ontologico, mentre la seconda è di natura fattuale, relativa non alla genesi del popolo ebraico, ma al suo comportamento.
L’asserita colpa di Israele è ben nota, così come è ben nota la punizione che ad esso sarebbe stata riservata, e che è ricordata nel racconto del percorso dell’aquila di Giove fatto da Giustiniano nel VI Canto del Paradiso. Se i diretti responsabili della morte di Gesù (Giuda, Caifa, Annah e gli altri membri del Sinedrio) sono responsabili di un peccato individuale e, in quanto tali, vanno individualmente puniti all’Inferno, nella concezione della Chiesa chi emise la condanna fu un legittimo tribunale, espressione di un intero popolo, che costituiva una specifica nazione sovrana. Di conseguenza, non solo quel tribunale andava cancellato, ma andava distrutta anche la città che lo ospitava, così come andava eliminata quella sovranità nazionale. Adamo ed Eva avevano commesso il peccato originale (il “peccato antico”), redento (“vendicato”) per la cristianità con la morte di Gesù. Quella morte sarebbe quindi necessaria sul piano della salvezza, ma, ciò nondimeno, rappresentava pur sempre un crimine, che andava anch’esso “vendicato”, scrive Dante. A ciò provvide il futuro imperatore Tito, che “a far vendetta corse/ de la vendetta del peccato antico” (Par. VI.92-93).
La distruzione del Tempio e di tutta Gerusalemme, così come la dispersione del popolo ebraico, rappresentavano quindi, in questa concezione condivisa dal Poeta, il compimento di un superiore disegno di giustizia.
Nel rappresentare questa geometrica concatenazione, Dante non inventa niente, perché l’idea che l’espugnazione di Gerusalemme fosse una giusta punizione divina era consolidata nella teologia medievale (ne parlano, per esempio, Girolamo e Orosio). Il fatto che essa venga ribadita nella Commedia non fa, come già abbiamo detto, di Dante un antisemita, ma, semplicemente, un uomo del suo tempo. Anzi, è da notare che il modo in cui egli rappresenta “la vendetta de la vendetta” ha dei connotati particolari, non segnati affatto da quell’odio o disprezzo verso il popolo accusato di deicidio riscontrabili in tanti pensatori e Padri della Chiesa (soprattutto Origene, Tertulliano, Agostino, Giovanni Crisostomo, Eusebio e Ambrogio).
Come ho già avuto modo di chiarire, in un precedente intervento, pubblicato il 20 settembre 2017, la responsabilità della morte di Gesù, nella visione dantesca, grava sul Tempio come istituzione, e risulta definitivamente riparata, “una tantum”, con la caduta di Gerusalemme. La punizione è collettiva, ma non è eterna. Il popolo ebraico non è votato alla continua sofferenza, anche se, ovviamente, nell’impero cristiano – che non può conoscere alcun confine di spazio e di tempo -, non può esservi spazio per una sovranità ebraica.
Dante non fu mai emotivamente antisemita, anche se, in quanto profondamente cristiano e profondamente medioevale, non poté non fare suoi i fondamenti della teologia medioevale, che era intrinsecamente antigiudaica. Ma – come abbiamo già chiarito – lo fece su un piano meramente freddo e razionale, senza alcuna forma di animosità personale (tanto presente, invece, in tanti luoghi della Commedia). Non c’è alcun sadismo, nessun compiacimento nella descrizione dell’avvenuta “vendetta de la vendetta”. Si prende semplicemente atto che essa è stata compiuta. E, cosa molto importante, la colpa è stata punita sul piano storico, terreno. Non c’è bisogno che essa venga ulteriormente proseguita a livello ultraterreno.
In quest’ottica, possiamo dunque prendere atto che gli ebrei, nella Commedia (al di là della punizione delle colpe individuali, quali quelle di Giuda, Caifa e Annah), appaiono divisi non in due categorie (prima e dopo l’incarnazione), ma in tre, in quanto va ulteriormente distinta la condizione della generazione vissuta tra la morte di Gesù e la distruzione di Gerusalemme (33-70 E.V.). I primi, come abbiamo visto, stanno in Paradiso. Quelli del 33-70 sono stati collettivamente puniti, “una tantum”, sul piano storico. Quelli vissuti ancora dopo non portano più nessuna colpa. Per loro le porte del Paradiso non sono chiuse.
Ma, se è così, perché Dante non dice apertamente che quelle porte sono aperte? La riposta è semplice: non poteva, perché gli ebrei non sono battezzati. Dante “non nega”, ma non può affermare. Secondo lui, le porte non sono chiuse, ma non possono essere aperte.
Francesco Lucrezi