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Jemolo e il Baal Shem Tov

Non sottovaluterei la portata della sentenza della Corte di Cassazione del 9 settembre scorso sul crocifisso nelle scuole, un documento che a me sembra notevole e credo meriti una ampia discussione. E non consiglierei di leggerla con gli occhiali della prima repubblica, come se uscisse dall’Italia democristiana di Andreotti o Rumor. Intanto la sentenza nasce nell’era Cartabia, una donna di grande valore certo non favorevole a compromessi di scarso respiro, né tanto meno figlia di quella stagione, che si sperava finita, di clericali e anticlericali l’un contro l’altro armati. Bisognerà rifletterci con calma su questo documento, che certo è un compromesso, ma anche un passo in avanti.
Certo, l’insoddisfazione nasce dal senso di stanchezza che prende chiunque osservi il ritorno infinito del sempre eguale: quello di cui si discute è il portato di errori e ritardi di decenni. Siamo così confusi se anche un buon compromesso ci sembra un sofisma di non semplice interpretazione? Forse capita così perché fin dall’inizio in Italia è esistito e con gli anni si è rafforzato un malinteso significato dei rapporti che in una democrazia che si definisca tale dovrebbe avere il dialogo fra Stato e confessioni religiose. Ogni intervento dello Stato, inclusa una sentenza della Corte Costituzionale come questa, direbbe Jemolo, «attossica» il senso della fede dei singoli, qualunque sia la religione professata. Ma indietro non si può più ritornare, essendo il difetto originale la causa di questi ingarbugliamenti. L’Italia da sempre ha scelto la strada di concedere allo Stato il diritto di intervenire in questioni attinenti alla fede, di qui la lagna infinita e stancante del dibattito sull’insegnamento della religione nelle scuole, sull’Imu per gli edifici di culto o il crocifisso nelle aule. Non saprei dire se è più stancante e superata dai tempi questa diatriba o l’altra, ritornata in auge pure lei in queste due ultime settimane, che ci chiama a stabilire se foibe e Shoah pari siano oppure no e vede impegnati storici di chiara fama che evidentemente non hanno nulla di meglio da fare o da studiare.
Riesce difficile, vista la storia che abbiamo alla spalle, sperare in un ripensamento che ci riporti alle origini dello Stato moderno. La tutela della libertà religiosa dovrebbe essere affidata alla coscienza dei singoli, al loro sincero sentirsi parte di un’esperienza religiosa, alla loro più profonda esperienza di fede, che merita rispetto ma dovrebbe provare paura ogni volta che lo stato si fa sentire. In una sua lettera alla stampa nazionale, a margine del recente commento papale alla lettera ai Galati di Paolo, Rav Riccardo Di Segni, con la consueta chiarezza e acuto spirito ironico, riporta l’episodio del Baal Shem Tov, che per decidere se il cocchiere cui si affidava fosse affidabile, osservava se passando davanti a una Chiesa si facesse il segno della croce. Quando così accadeva si metteva in viaggio sereno: «Per il Baal Shem Tov un semplice atto di fede, anche se non ebraica, era una patente di credibilità». Talvolta si ha la sensazione che questo saggio criterio ecumenico (gli interessi dei veri uomini di fede sono fra loro solidali) svanisca quando i laici, anche ebrei, discorrono in astratto di laicità dello Stato o giudicano le sentenze in base a un criterio di fredda normatività, lasciando in secondo piano la libertà del credente che, solo, può giudicare cosa è credibile e cosa non lo è. Anche questo è un problema antico, ben presente in età liberale. Mi piace pensare che Jemolo la pensasse come il Baal Shem Tov quando diceva che le ingerenze dello Stato intossicano. Nel suo libro sui giansenisti del 1929, l’anno del Concordato!, rivendicava il diritto del credente alla sua autonomia di giudizio e scriveva una frase che i seguaci della cancel culture oggi gli chiederebbero di eliminare, ma a me piace sempre ricordare ai difensori di un’ambigua idea di laicità delle istituzioni: “La storia della pittura non può essere scritta da un cieco”.

Alberto Cavaglion