Una storia da riscrivere
Contravvenendo palesemente alla Terza Convenzione di Ginevra, nel settembre 1939 il Reich non riconobbe i combattenti delle forze armate polacche quali prigionieri di guerra; questi furono trasferiti ad Auschwitz I Stammlager e presso Campi di lavoro coatto in territorio tedesco.
Nel 1928 il compositore polacco Zygmunt Mycielski, dopo aver studiato a Cracovia con Padre Bernardino Rizzi, si trasferì a Parigi dove studiò presso l’École Normale de Musique con Paul Dukas e Nadia Boulanger, nel 1936 rientrò in Polonia; inquadrato nell’esercito polacco nel 1939, dopo la debacle militare riparò in territorio francese unendosi ai combattenti della Campagna di Francia.
Nel giugno 1940 fu catturato e assegnato al lavoro coatto presso una struttura agricola non identificata in territorio metropolitano tedesco; in questa struttura Mycielski (foto a sinistra) scrisse l’offertorio Fiat voluntas tua per pianoforte o organo e due violoncelli e Pięć szkiców symfonicznych per orchestra.
Altrettanta alienazione dalle prerogative di trattamento dei prigionieri di guerra fu applicata dal Reich nei riguardi dei militari italiani dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943; considerati ostili, essi furono derubricati a Italienische Militär-Internierte, definizione che di fatto li sottrasse a tutele e garanzie stabilite dalle convenzioni internazionali sottoponendoli a severo regime disciplinare e lavoro coatto.
Il 15 novembre 1940 presso la Chasseurkaserne della città francese di Forbach – annessa al Reich con il dipartimento della Mosella – fu aperto lo Stalag XII per l’internamento di prigionieri di guerra francesi, belgi, polacchi, serbi, sovietici, Internati Militari Italiani; nel 1942 un numero imprecisato di prigionieri di guerra morì per malattie e malnutrizione durante il trasporto ferroviario.
Il compositore italiano Gino Marinuzzi jr. fu internato presso lo Stalag XII F e assegnato al Kommando Ludwigshafen am Rhein; con pezzi di carbone o matite annotò su sacchi di cemento inutilizzati melodie popolari russe, ucraine e dei Roma apprese dai compagni di prigionia.
Dopo la liberazione, Marinuzzi stese le melodie elaborandone una trascrizione per pianoforte a 4 mani; in tal modo nacquero i bellissimi Lagerlieder.
Cambiano scenari geopolitici, tipologia deportatoria ma l’arte di mettere in salvo l’intelletto in una diversa visione di vita grazie alla musica è l’unica, immutabile costante.
Nel 1943 arrivò a Bergen-Belsen un gruppo di giovani ebrei tunisini con il loro Morè; erano molto osservanti e recitavano scrupolosamente le tefilloth quotidiane.
A ragione della kasheruth, rifiutavano il cibo fornito nel Lager e, per tal motivo, si lasciarono morire di inedia; ma cantavano, ci sono pervenuti diversi loro canti tra i quali un meraviglioso Ashreinu ricordato dalla sopravvissuta Ester Rayz (anch’ella deportata a Bergen-Belsen).
La vita è da difendere a ogni costo; dovevano comunque cibarsi per salvare la propria vita?
Non è possibile rispondere ma una verità è senza dubbio condivisibile: tutti cantavano e facevano musica anche in punto di morte.
Il futuro è già scritto, pietrificato nella parte solida delle nostre più lungimiranti visioni; il passato è invero una storia da riscrivere, non nel falso senso revisionista del termine ma nelle sue immense energie nebulizzate da macigni crollati sull’ingegno umano e da crimini inenarrabili che attendono ben più profondi e radicali processi di quelli di Norimberga.
In siti di cattività inimmaginabili, l’uomo scatenò meccanismi creativi, educativi e rigeneranti che di gran lunga oltrepassano la differenziazione cronologica di passato, presente e futuro; mentre 8.000 opere sono già destinate a riscrivere la Storia della Musica del Novecento, altre migliaia e migliaia di pagine cameristiche, sinfoniche, teatrali e di altro genere giacciono tuttora nell’anonimato della Storia in attesa di riprendersi il proprio ruolo nel grande gioco tra reale e immaginario.
Questa musica vuole tornare a scorrere nell’organismo vivente dell’Arte come fiumi sanguigni che attendono di incanalarsi in nuove arterie; a ogni pagina di tale patrimonio va restituito un complesso, dettagliato significato ed è un compito che ci riguarda.
Molti musicisti deportati abbozzarono canovacci di opere che spetta a noi completare, rifinire; i loro manoscritti non vanno conservati come fossero reliquie ma dobbiamo sfogliarli, captare ogni spia che si accende nell’orchestrazione e distribuzione del materiale organologico, nelle parti vocali e corali, badando a ogni probabile disattenzione – dovuta a mille comprensibili cause – che renda il prodotto non ancora pronto per l’esecuzione o l’allestimento.
Oggi quei musicisti del Novecento hanno bisogno di noi; l’attesa, finalmente, è finita.
Francesco Lotoro