Buon 5782

I tempi che viviamo si stanno rivelando come una sorta di partita, dagli esiti imprevedibili, tra apertura e chiusura. È apertura ciò che riesce a trasformare i timori, se non le paure, in un’occasione di trasformazione e mutamento per un tempo altrimenti vissuto come imprevedibile e indeterminabile. Lo scorrimento del tempo storico è, da quando l’umanità si generò, il racconto di questo perenne moto verso il mutamento. Che determina attenzione e apprensione, speranza e affettazione, identificazione come diniego. Da sempre. È invece chiusura l’illusorio rifiuto di questo dato di fatto, che si traduce da subito in fuga dalla realtà, alla ricerca di un tanto facile quanto illusorio rifugio in un qualcosa che potrà essere chiamato in tanti modi ma segnerà sempre e comunque il fallimento di chi vi si andrà a rintanare. Apertura e chiusura non sono solo due meri schemi mentali ma il prodotto di una congerie di fattori, culturali così come materiali, tanto individuali quanto collettivi. Affrontano meglio le sfide che si ergono dinanzi a sé gli individui, i gruppi, le collettività che hanno una migliore dotazione di risorse. Chi invece ne è privato oppure, peggio ancora, deprivato, impedito, spossessato, è molto più difficile che possa guardare all’orizzonte, dinanzi a se stesso, con fiducia. Anche per questo cercherà una qualche forma di compensazione. Ci viene da dire che l’uno atteggiamento, così come l’altro, non sono il risultato di una dimensione puramente morale, benché richiamino in sé un sistema etico di riferimento. Poiché la mente chiusa, e la paura che le fa da collante, è ciò che accompagna i fondamentalismi di ogni genere e risma. Presenti in tutti i gruppi sociali, nessuno escluso, in quanto – a prescindere dal fatto che ciò possa piacerci o meno – i meccanismi di azione e reazione elementari sono comuni per tutta l’umanità. È semmai la lunga e complessa formazione culturale, e quella alla socializzazione, che ne leviga forme e contenuti. Mentre l’apertura implica la capacità di riconoscere e gestire in maniera il pluralismo delle nostre società, le sue asimmetrie, i costanti rivolgimenti, le repentine tensioni; soprattutto, il fatto che noi ne siamo parte, anche in questo caso che ci piaccia o meno. Anzi, esistiamo, al medesimo tempo in quanto persone e come gruppo, proprio perché siamo inseriti in questa struttura a mosaico, dove i diversi tasselli sono tali in ragione delle loro diverse dimensioni. In genere, i fondamentalisti si fanno beffe di quest’ultimo riscontro, sostituendovi la brutale e secca contrapposizione che deriva dai differenziali di potere. Un po’ come dire: “anime belle, se non si domina, si sarà dominati; tutto il resto è puro idealismo”. E per meglio “dominare”, ci si dovrà chiudere a conchiglia tra i propri pari. Guardando con sospetto, se non con rifiuto, a tutto il resto. Come sussiste un’immagine delle società basata su un’inesistente armonia universale (le società si sono storicamente determinate sulla base delle diseguaglianze; è “buona società” quella che riesce a ridurne gli impatti collettivi, non quella che li nega o li rimuove dall’orizzonte dell’analisi e della comprensione) così è altrettanto illusorio riparare nella triste consapevolezza che i conflitti siano destinati a determinare, di volta in volta, la subalternità, se non la cancellazione, di una o più parti in gioco. Ancora una volta viene da dire che i processi di globalizzazione, oramai in corso da decenni, portano con sé molti effetti, per nulla racchiudibili sotto un solo indice di valutazione. L’umanità è in cammino da millenni. Ne siamo una piccola parte. Se si è testimoni di qualcosa, allora lo sguardo non può non osservare anche l’orizzonte del futuro, oltre a quello trascorso.

Claudio Vercelli