Aprire gli archivi
Il nostro Paese soffre di una certa reticenza nel confrontarsi con la storia, in special modo quando questa non segua un certo mainstream tranquillizzante e una narrazione ampiamente condivisa e poco problematizzata. L’estrema difficoltà incontrata dall’idea stessa di realizzare un museo dell’Italia fascista, con polemiche e liti sul luogo adatto e sul tipo di narrazione proposta, è solo un esempio, peraltro ormai accantonato e non più all’ordine del giorno.
La parola corretta credo sia “reticenza”. Si fa estrema fatica ad accettare l’idea che la nostra storia è ben diversa dalla comoda narrazione del “bravo italiano” e comprende momenti in cui italiani e italiane hanno condotto azioni moralmente non irreprensibili, con le quali in ogni caso è necessario fare i conti per comprendere appieno la nostra contemporaneità.
Gli esempi sono moltissimi e spaziano dai massacri perpetrati dalle nostre truppe in Libia o in Etiopia o ovunque ci sia stata guerra (ché la guerra non è mai un fatto neutro, né morale), agli infoibamenti di una e dell’altra parte (sempre con vittime civili), alle ancora ampiamente sconosciute connessioni fra apparati cosiddetti “deviati” dello stato e i progetti stragisti di varia natura, politica o mafiosa. Lo studio di questi aspetti della storia d’Italia e la conseguente produzione di narrazioni pubbliche (articoli di ricerca scientifica, convegni, mostre, musei, produzioni multimediali ecc.) necessita senza dubbio di investimenti importanti nella catalogazione e valorizzazione degli archivi pubblici e privati, un processo che passa anche attraverso un deciso lavoro di desecretazione di documenti fino ad oggi tenuti ben chiusi e lontani dal mondo della ricerca.
Abbiamo appena finito di celebrare l’apertura alla consultazione dei fondi vaticani sul pontificato di Pio XII che sono ora oggetto di studi, e già iniziano ad emergere dal loro studio mutamenti di prospettive storiografiche e aggiustamenti di rilievo. Un simile atto di “coraggio” istituzionale è ora atteso da parte dello Stato italiano, a cui da tempo si chiede di togliere i sigilli dalla documentazione relativa alle principali stragi che hanno caratterizzato la storia del paese negli anni ’60, ’70 e ’80. Uno Stato, per intenderci, che per decenni ha tenuto nascosta la documentazione contenuta nel cosiddetto “armadio della vergogna” che conteneva ampia documentazione sulle stragi nazifasciste.
In questo contesto, mi sembrano particolarmente sorprendenti e poco giustificate le polemiche sorte attorno alla donazione a istituzioni pubbliche di due archivi personali di esponenti del fascismo e del neofascismo. Parlo di parte dell’archivio personale di Italo Balbo, donato dalla famiglia all’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, e dell’archivio di Pino Rauti, per il quale è stato istituito un fondo speciale presso la Biblioteca Nazionale di Roma. In entrambi i casi si tratta di documentazione che promette di essere particolarmente interessante per la storia degli ebrei in Italia. Nel caso di Balbo, senza dubbio chi andrà a studiare quell’archivio avrà modo di gettare nuova luce sui suoi rapporti con Renzo Ravenna, podestà ebreo di Ferrara, e con l’ambiente della media borghesia urbana dell’epoca. E potrà magari scoprire qualcosa di più sui suoi tesi rapporti con la comunità ebraica tripolina, all’epoca del suo governatorato di Libia. Per quanto concerne Pino Rauti, si potrà di certo approfondire la dinamica di pensiero e di azione della corrente neo-Evoliana, offrendo nuove prospettive sulla sua influenza nella strutturazione di movimenti neofascisti e antidemocratici che operarono nel secondo dopoguerra. Si potrà anche valutare meglio il peso che l’antisemitismo giocò in tale contesto, anche per comprendere meglio l’antisemitismo di oggi.
In tutti i casi, io credo che non siano accettabili iniziative che si oppongono all’apertura degli archivi, sia pubblici che privati. Solo mettendoli a disposizione e studiandoli potremo aspirare a comprendere la storia del nostro presente.
Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC