La città di Trieste
“[Trieste è] una città che parla un dialetto veneto, circondata da una campagna nella quale non si parla che una lingua slava, la parte più intellettuale della borghesia, che si sente staccata dal paese cui crede di appartenere per lingua e per cultura (è benché non conoscano il ‘toscano’ e benché la cultura… ma della cultura non parliamo), e che è dunque costretta, in pieno ventesimo secolo a ricorrere a un frasario retorico ottocentesco da Risorgimento, che tiene alta la fiaccola, che crede che l’italiano sia l’idioma gentil sonante e puro, e Firenze la città dei fiori, che crede che a Roma mungano la lupa per dar da bere il latte alla stirpe, che offre lampade votive, che attacca dappertutto leoni di San Marco…”.
Questa è Trieste come la descriveva Roberto Bazlen in un’intervista presente tra i suoi pochi scritti. Al tempo inoltre la città era affidata a “una burocrazia austriaca ineccepibile, che parlava il tedesco” e le tre principali nazionalità, italiani, sloveni, tedeschi avevano le proprie società ginniche, istituzioni e circoli culturali. Di più si sentiva parlare per le sue strade il greco, lo yiddish, il giudeo-corfiota, l’armeno, il tergestino e via dicendo. Intere biblioteche e libri importanti e sconosciuti si potevano ritrovare poi, come racconta sempre Bazlen, “tra le bancarelle dei librai del ghetto”. Se escludiamo il fatto che Trieste non è più sotto il dominio austriaco, non è che la città sia granché cambiata da come la descrisse Bazlen, le bancarelle di libri rari nell’ex ghetto vi sono ancora e potremmo quindi ancora affermare che “Trieste è una città che più di altre comunica in un dialetto veneto, circondata da una periferia nella quale si parla soprattutto sloveno e serbo-croato, dove la maggioranza dei suoi abitanti ha un cognome slavo o tedesco (magari italianizzato) ma che insiste a sentirsi parte di un paese che da tempo l’ha abbandonata e ridotta ai suoi margini, oltre quelli geografici”.
Rattrista dunque che Trieste salga alle cronache nazionali quasi unicamente con brutti personaggi come quel tale Michele Broili, ex pugile (si spera) il quale mostra orgoglioso sul proprio corpo tatuaggi inneggianti il nazismo. Di nuovo un oltraggio ad un luogo che deve all’incontro con l’altro il suo stesso essere, il suo passato che per quanto vivo è anche spesso rimosso.
Francesco Moises Bassano