Benedetto Croce, gli ebrei e Sukkot
In vacanza lo scorso agosto a Pescasseroli, nel cuore delle montagne abruzzesi, mi sono ritrovato circondato dai ricordi di personaggi illustri. Appena arrivato, il portiere del residence dove alloggiavamo, vedendomi con la kippà e un libro ebraico in mano, mi ha chiesto se fossi ebreo. Alla risposta affermativa, mi ha detto di aver conosciuto il rabbino Toaff che andava in vacanza in un residence lì vicino, aggiungendo: “Veniva con la scorta. Una volta organizzò un convegno interreligioso con molti partecipanti e gli uomini della scorta aumentarono. Lo serravano così da presso a ogni passo che se Toaff si fosse fermato di colpo, gli sarebbero andati addosso”. Che rav Toaff usasse passare alcuni giorni di vacanza a Pescasseroli mi è stato poi confermato dai suoi familiari e dai rappresentanti delle comunità.
A Pescasseroli nacque nel 1866, nel palazzo della nobile famiglia materna Sipari, Benedetto Croce. Anche il padre era abruzzese, di Montenerodomo. La famiglia di Croce si era in realtà trasferita già da qualche tempo a Napoli, ma a causa dell’epidemia di colera erano tornati in montagna, considerata una zona più sicura e isolata, e lì Benedetto nacque. Passata l’epidemia, andarono di nuovo a Napoli dove Benedetto crebbe e dove iniziò la sua formazione culturale, e con essa la passione per i libri, dei quali – come scrisse decenni dopo – “perfino l’odore di carta stampata mi dava una dolce voluttà”. Nel luglio 1883, in vacanza a Ischia, il terremoto a Casamicciola causò la morte dei genitori e della sorella e anche il giovane Benedetto rimase gravemente ferito, sommerso dalle macerie. Croce non tornò a Pescasseroli se non molti anni dopo, nell’agosto 1910, divenuto acclamato filosofo e senatore del Regno, e in quell’occasione pronunciò un discorso dal balcone del palazzo Sipari alla gente venuta a rendere omaggio all’illustre figlio di quel paese: “Sono andato in giro per molta parte del mondo [ma] non mi ero ancora risoluto a venire a Pescasseroli [… per non] sostituire immagini precise a quelle ondeggianti che erano nel mio cuore ricche di tanto significato, giacché facevano tutt’uno con l’immagine di mia madre”. E poi, alla fine del discorso, pronunciò le seguenti parole, che sono il motivo per parlare di Croce su questo sito:
Ho vissuto la mia vita a Napoli, tra una popolazione intelligentissima, calda, cordiale, impulsiva […]. A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio […]. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano […] io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: – Tu non sei napoletano, sei abruzzese! – e in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza.
Belle parole. Peccato che il filosofo abruzzese se ne fosse evidentemente dimenticato quando invitò gli ebrei, dopo le persecuzioni per mano dei fascisti e dei nazisti e per evitarne di altre, a “fondersi sempre meglio con gli altri Italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli”, aggiungendo che gli ebrei sono “foggiati da alcuni tratti sopravviventi di una religiosità barbarica o primitiva”, come scrisse in una lettera inviata a Cesare Merzagora poi pubblicata come prefazione agli scritti di quest’ultimo. Parole che suscitarono stupore nei più, anche alla luce del fatto che Croce si era adoperato a favore degli ebrei durante il periodo nazifascista.
In un incontro del tutto ipotetico a Pescasseroli fra rav Toaff e B. Croce, magari seduti al caffè in Piazza del Municipio, mi immagino che il rabbino avrebbe potuto dire al filosofo: “Quello che Lei disse sull’essere abruzzese non vale forse pure sull’essere ebreo? Bene le ha risposto il mio collega e corregionale Dante Lattes, dalla parola pronta e dalla lingua tagliente, che sul giornale Israel le scrisse, con tutto il rispetto dovuto a un illustre filosofo quale Ella è, che il consiglio agli ebrei di scomparire in quanto tali non l’avrebbe dato a nessun’altra religione, a nessun altro nucleo etnico o nazionale e neppure ai liberali, ai repubblicani, ai socialisti, ai comunisti che volessero persistere nella loro fede politica!”.
Questa settimana gli ebrei festeggiano Sukkot, la festa delle capanne, apparentemente la più “primitiva” fra le feste ebraiche, con la sua materialità, la terra e le piante che la caratterizzano. I Maestri del Talmud insegnano che la sukkà, la capanna, è collegata con l’Arca Santa che conteneva le Tavole della Legge. E come i Dieci Comandamenti furono donati a tutta l’umanità, così Sukkot è una festa dedicata all’umanità intera, in attesa del compimento della profezia messianica di Michà (4:1-5): E avverrà in futuro che il monte della casa del Signore sarà saldo al di sopra di tutti gli altri monti […] e a lui affluiranno tutti i popoli […] che spezzeranno le loro spade per farne delle vanghe e le loro lance per farne delle falci; nessuna nazione alzerà più la spada contro un’altra e non impareranno più l’arte della guerra […] Mentre tutti i popoli procedono nel nome del rispettivo dio, noi procederemo per sempre nel nome del Signore, nostro Dio (trad. di rav Giuseppe Laras z.l.).
Nessun fondersi di credi religiosi, ma ogni nazione con il suo specifico modo di rapportarsi alla Divinità. Questa è la visione, per alcuni primitiva, dell’ebraismo.
Chag sameach, una gioiosa festa.
Rav Gianfranco Di Segni
Qui la lettera di B. Croce a C. Merzagora in cui espresse le sue opinioni sugli ebrei.
Qui la replica di Dante Lattes, pubblicata su Israel del 30.1.1947 e poi ripubblicata sulla Rassegna Mensile di Israel, XLII, n. 9-10, sett.-ott. 1976, pp. 371-375.
Qui un saggio dello storico Roberto Finzi, recentemente scomparso, che inquadra la genesi e lo sviluppo della polemica.
(Ringrazio Annalisa Capristo per avermi fornito queste fonti)
(Nell’immagine in alto la festa di Sukkot vista da Lele Luzzati)
(26 settembre 2021)