Il Dialogo e la comunicazione
Per entrare in un dialogo vero e creativo con l’altro, bisogna innanzitutto saper dialogare con se stessi. Bisogna entrare in rapporto con il “tu”, con la nostra totalità, e non solo con una parte di noi, rimuovendo questo aspetto o quell’aspetto che può essere scomodo. Allo stesso tempo, bisogna ascoltare l’altro nella sua propria totalità diversa, accettandolo secondo la sua stessa autodefinizione.
Il dialogo può essere creativo soltanto nella misura in cui ognuna delle due parti sia profondamente radicata nella propria specifica identità, altrimenti può trasformarsi in un facile modo di risolvere le proprie problematiche irrisolte, scivolando in una pseudosoluzione che non solo non è di aiuto alla crescita ma può anzi essere la vera pietra tombale di un incontro. Ed è proprio la Bibbia che ci insegna come una società in cui non si comunica sia destinata alla distruzione. Nella storia della torre di Babele, gli uomini tentano di raggiungere il cielo elevandosi verticalmente: saranno puniti con la confusione delle lingue. Mi sembra che i motivi del fallimento di una società come quella della torre di Babele vadano ricercati nel fatto che, secondo il racconto biblico (Genesi,11;1), in quella società non solo tutti parlavano la stessa lingua, ma usavano anche le stesse espressioni. E una società in cui non c’è diversità di espressione e di opinione è una società privata della possibilità di comunicare, una società che afferma l’omologazione, il totalitarismo delle idee; una società in cui non c’è spazio per il confronto. Appare quindi ovvio che una tale società aspiri a crescere verticalmente producendo modelli di dominio e di prevaricazione dell’uomo sull’uomo.
Con Abramo, la cultura ebraica diventa l’antitesi della cultura della torre di Babele, ponendosi come cultura della diversità e dell’alterità attraverso quel modello di orizzontalità che è la dialettica. E non è un caso che il primo vero dialogo, nella Bibbia, sia quello di Abramo e sua moglie Sara: “…so bene che tu sei donna di bell’aspetto…” (Genesi,12; 11). Il dialogo inizia in famiglia, con l’unione matrimoniale, e anche in questo Abramo è il primo monoteista, poiché intuisce che l’unicità di Dio è una ricerca che si afferma non attraverso la verticalità dell’elevazione, ma grazie all’orizzontalità del dialogo. Quella di Abramo è la prima vera eccezione, dopo vari tentativi di dialogo falliti, come quello mutilato di Caino e Abele: “Caino disse ad Abele suo fratello, e mentre si trovavano in campagna, Caino si levò contro suo fratello Abele e lo uccise” (Genesi,4;8), oppure quello di Babele (Genesi,11;1-9) che è un dialogo impossibile. Sono dialoghi dove sembrano mancare totalmente i concetti di alterità e di interazione. Anche in questo Abramo è il primo ebreo, “ivri'”, nel vero e proprio senso letterale del termine (“ivri'”, “dall’altra parte”), non solo da un punto di vista geografico ma come afferma la letteratura rabbinica: “…il mondo era da una parte e lui da tutt’altra…”.
La Tradizione ebraica ci insegna come ogni comunicazione dovrebbe essere preceduta da una “chiamata”. “L’Eterno chiamò Moshé e gli parlò…”. Questo non solo per evitare che la comunicazione diventi un messaggio generico e indifferenziato ma, anche e soprattutto, perché la persona chiamata possa sentirsi destinataria di un’attenzione particolare. In una società mediatica e globalizzata come la nostra ognuno ha l’impressione, per non dire l’illusione, di essere contemporaneamente in rapporto con l’umanità tutta intera. Ma il “tutti in relazione con tutti…” significa spesso “anonimato”, essere soli e persi. Ancora oggi resta più gratificante ricevere una chiamata piuttosto che un messaggio telematico, spesso impersonale e predefinito. Da sempre, gli ebrei necessitano di leader che chiamano e non che si fanno chiamare. Questo non solo per evitare che la comunicazione diventi un messaggio generico e indifferenziato ma, anche e soprattutto, perché la persona chiamata possa sentirsi destinataria di un’attenzione particolare. Alla ricerca di una società più intima che consenta ai suoi membri di conoscersi gli uni con gli altri e che apporti alle persone la coscienza di una vita comunitaria qualificata e stimolante senza schermi e senza restare schiacciati dai rispettivi ruoli. Trovare gli antitodi perché le relazioni interpersonali siano sì dialettiche, ma non di dominio, richiede che si abbandoni quella prassi per cui la cultura minoritaria “subalterna”, è chiamata ad assimilarsi a quella egemone. All’ossessione della differenza e delle gerarchie fra identità, propria di atteggiamenti intolleranti, non bisogna opporre però il mito di un’uguaglianza astratta fra gli uomini, perché le differenze esistono ed è la comunicazione fra di esse a generare progresso e cultura.
Testo tratto dal sito della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Sul sito sono presenti programmi, contenuti, approfondimenti, video, gallery fotografiche e percorsi multimediali per scoprire le tante località che aderiscono al circuito. Clicca qui per accedere.
Roberto Della Rocca, rabbino e direttore dell’Area Cultura e Formazione UCEI
(27 settembre 2021)