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Piccola bugia di Freud

Scrive Arthur Schopenhauer che, per essere conosciuto, “l’uomo va studiato ben a fondo e deve essere messo alla prova, perché la ragione lo rende quanto mai capace di fingere” (da: Il mondo come volontà e rappresentazione). Si noti: non dice che l’uomo è il solo capace di finzione, anche le piante e ancor più gli animali sanno fingere; dice che la finzione è opera della ragione e come tale si trova in massimo grado negli esseri umani. Tra chi raccolse la lezione eccelse Sigmund Freud, che con la psicoanalisi offrì una teoria delle nevrosi come meccanismi di rimozione e finzione, o meglio di auto-finzione nonché di occultamento di traumi passati e di moventi per il nostro agire quotidiano. Smascherare tali meccanismi presuppone il riconoscere l’esistenza di una maschera e il ruolo che la ragione individuale (l’ego) e l’ethos collettivo (il superego) svolgono nel contrastare il ballo mascherato orchestrato dal nostro inconscio (l’es). Per dirla sempre con Schopenhauer, si tratta di riconoscere quella volontà impulsiva e meta-razionale che governa il mondo, e noi al suo interno. La piccola bugia di Freud riguarda appunto Schopenhauer e l’influenza che il filosofo anti-hegeliano par excellence ebbe sul padre della psicoanalisi. Ma andiamo con ordine.
L’occasione per individuare la piccola bugia ci è data dalla stimolantissima lettura degli atti di un convegno dedicato all’archeologo e connoisseur Ludwig Pollak, ebreo praghese ma per decenni residente a Roma e da qui deportato con la famiglia ad Auschwitz (a settantacinque anni), il 16 ottobre 1943, dove morirà pochi giorni dopo l’arrivo. La sua figura di eccellente studioso e il suo ruolo nei circoli dei musei e del collezionismo d’arte, a livello europeo, sono in corso di rivalutazione. Gli interventi al predetto convegno sono ora pubblicati dalle edizioni ‘ain-t (copyright: Fondazione Museo Ebraico di Roma), a cura di Roberta Ascarelli e Orietta Rossini, con il titolo L’ossessione per l’antico. Sigmund Freud e Ludwig Pollak tra ebraismo, archeologia e collezionismo: una miniera di informazioni, rimandi bibliografici, pungoli intellettuali. Dietro/dentro la Storia ci sono le storie di persone che spesso vivono di passioni, visioni e idee ossessive, in network che la morte inesorabilmente spezza e travolge con la più naturale delle leggi, l’oblio. Dunque, dove Freud ha mentito? E perché? Freud incontra più volte Pollak a Vienna nel gennaio e febbraio 1917, grazie alla mediazione dell’archeologo e critico d’arte viennese, con cattedra alla Sapienza di Roma, Emanuel Loewy (1857-1938), il maestro di Ernst Gombrich. Nel suo Diario Pollak annota di aver discusso con il grande psicoanalista di Schopenhauer. Orietta Rossini dice che Freud non dava certo confidenza al primo venuto, eppure discusse di filosofia e scienza con questo archeologo: “Da medico e scienziato, quale si considerava e voleva essere riconosciuto, Freud vide con orrore la possibilità che la sua teoria potesse essere scambiata per una filosofia, ma non esitò nelle opportune sedi a riconoscere il suo debito e la sua ammirazione per Schopenhauer. Tuttavia, negli stessi mesi in cui incontrava Pollak, si rivolse al suo pubblico universitario con queste parole: ‘Forse scrollerete le spalle dicendo che questa [la psicoanalisi] non è scienza della natura ma filosofia, la filosofia di Schopenhauer! E perché mai, signore e signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare?’. Che poi due anni dopo, nell’estate del 1919, Freud scriva a Lou Andreas Salomé di star leggendo Schopenhauer ‘per la prima volta’ è un dato da leggere come un falso, mirato e non isolato, che intende rivendicare l’originalità della psicoanalisi… e affermare la sua disciplina come ‘scienza’ emancipata dall’umanesimo della filosofia”.
La piccola bugia o finzione, scritta alla Salomé, è ripetuta al discepolo Otto Rank, come leggiamo in nota: “Secondo Peter Gay, quando Rank mostrò a Freud un passaggio di Schopenhauer che lo anticipava di decenni, il maestro commentò seccamente di dovere la propria originalità alle proprie ‘scarse letture’”, non riconoscendosi in alcun modo dipendente dalle geniali speculazioni del più famoso degli anti-hegeliani. Chi si occupa di storia delle idee (ebraiche e non) non può non trovare questa finzione assai illuminante, così come lo sono i network senza i quali è impossibile capire genesi e sviluppi delle idee e delle teorie che hanno influenzato il secolo breve. Il motivo del fingere una scarsa dimestichezza con la filosofia tedesca, da parte di Freud, è stata dunque spiegata: accreditare lo studio dell’inconscio e delle patologie connesse come ‘scienza’, scienza positiva, sviluppata sulla base di un metodo sperimentale e non intuitivamente come, a suo dire, procederebbe la filosofia. Sulla questione del metodo, il testo citato rimanda anche al famoso saggio freudiano, apparso anonimo nel 1914, dedicato al Mosè di Michelangelo, le cui osservazioni paiono anticipare i risultati degli studi più recenti circa la scultura che sta in San Pietro in vincoli a Roma, molte volte mèta di pellegrinaggio culturale del Freud ‘ossessionato dall’antico’. Non ci arrivò, suo malgrado, per via intuitiva? Anche di Mosè e di Michelangelo parlarono Freud e Pollak in quel fatidico ’17, ma in che termini non ci è dato sapere.

Massimo Giuliani, Università di Trento