Storie di Libia – Vito Raccah
Vito Raccah, ebreo di Libia nato a Tarhuna, dedica ai suoi genitori questa intervista. Suo padre si occupava di commercio di spezie all’ingrosso a Tripoli. La famiglia era tradizionalista e osservante in maniera “flessibile”. Vito viveva in un quartiere malfamato e frequentava una gruppo di ragazzi che comprendeva cattolici, musulmani, americani e lui, unico ebreo.
Usavano girare per le strade e rispondevano alle provocazioni: difatti la polizia spesso ce l’aveva sotto casa. È stato incarcerato per ben quattro volte, una di queste volte era prevista una detenzione piuttosto lunga. Ringrazia l’avvocato Joseph Habib zl per averlo difeso e per avergli risparmiato tale sentenza.
Frequentavano un bar, chiamato il bar del buco (lo scantinato), dove si scatenavano con grande frequenza risse tra arabi e americani provenienti dalla vicina base aerea che si chiamava Wellus Field. Le risse erano piuttosto violente, si vedevano le stecche e biglie da biliardo che volavano tra le teste dei partecipanti. Spesso la polizia presiedeva la strada dove vivevano.
Vito ad un certo punto canalizzò la sua rabbia e aggressività nella frequentazione di una palestra di pugilato: iniziò a controllarla e diventò un atleta di fama nazionale, l’unico ebreo in tutta la Cirenaica. Non perdette nessun combattimento, entrando pure a far parte della rappresentativa nazionale. Per evitare contrasti cambiarono il suo nome con un nome italiano. Ebbe una brillante carriera come pugile e combatté fino al pogrom. L’unica cosa che gli dispiaceva quando combatteva era di non poter applicare la Stella di Davide su i suoi calzoncini.
Vito mostra molte fotografie dei combattimenti che spesso avvenivano tra atleti di Tripoli e di Bengasi. Ricorda che poco prima del pogrom, durante un viaggio in Tunisia, aveva sentito tamburi di guerra contro Israele che davano a presagire l’imminenza di fenomeni di antisemitismo nei paesi arabi. Ciò nonostante fece ritorno a Tripoli. Alcuni arabi amici di famiglia consigliarono di chiudere il negozio e andare a casa. Vi si rifugiarono preparandosi ad accogliere le aggressioni con mattoni e attrezzi improvvisati per la difesa. I loro vicini cattolici avevano dirottato gli arabi alla ricerca di ebrei e così decisero di spostarsi a casa della sorella che si trovava vicino al palazzo del re. Lei al momento si trovava in Italia.
In quella mezza ora di tragitto vide palazzi e negozi che bruciavano e persone che urlavano contro gli ebrei per la strada. Fece un ulteriore viaggio cercando di portare via qualcosa: ricorda lo sgomento nel non sapere cosa stesse veramente succedendo. Gli amici musulmani di suo padre, quelli piu moderati e civili, portavano loro da mangiare pasta, pane, latte, olio etc etc. Nei ricordi di Vito vive l’immagine di un uomo squartato durante il pogrom del ’48, quando lui aveva solo otto anni. Dopo lo sterminio delle due famiglie Raccah e Luzon il governo decise di mandare via tutti gli ebrei: ricevettero l’ordine di lasciare la Libia e li portarono in aeroporto su un camion militare.
Pur avendo solo venti sterline e una valigia, salendo in aereo l’unico sentimento era la felicità di essere scampati alla morte. In Italia trovarono aiuto e assistenza, gli fornirono un appartamento ma senza frigorifero e per questo a luglio finirono in ospedale intossicati da cibo avariato. A Roma vivevano in povertà rispetto a come erano abituati a vivere in Libia. Disponeva di passaporto libico e con quello dopo qualche mese decise di tornare per tentare di vendere alcune ville da lui costruite, camuffato per non essere riconosciuto come ebreo contattò delle persone molto altolocate per iniziare una contrattazione. Uno degli amici che avevano viaggiato con lui lo informò che l’ufficio passaporti lo stava cercando e minacciava, se non si fosse presentato, di revocare il visto a tutti. Così Vito offrì al capo dell’ufficio passaporti di fare con lui l’affare in cambio dei visti. L’arabo non riuscì ad ottenere i finanziamenti ma fu di parola e diede i visti per farli rientrare in Italia. Così Vito, concluso l’affare della vendita di alcune cose, tornò in Italia e con un Mercedes comprato dal padre: in cambio di questa operazione finita bene, andò in Israele a fare la “bella vita”.
Vito ha contribuito al servizio militare come dovere, partecipando con orgoglio alla storica guerra dello Yom Kippur sotto i comandi del mitico Arik Sharon.
Vito dice di non aver trasmesso nulla ai suoi figli nati in Israele e attualmente in Italia. E riguardo ai beni degli ebrei confiscati in Libia, pensa che se qualcosa potesse essere recuperato dovrebbe essere destinato non ai singoli ma ad Israele. È felice di aver lasciato la Libia perché dice che lì non avrebbe avuto opportunità. L’unica cosa che vuole preservare della cultura libica è la cucina tripolina, da lui ritenuta di alta qualità ed esclusiva.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(4 ottobre 2021)