Abramo, padre di popoli

Non è certo nelle possibilità di un breve e modesto scritto come questo fornire una panoramica completa e approfondita della lunga e feconda storia di relazioni e scambi tra ebraismo e islam. Vorremmo qui solamente presentare alcuni brevi spunti, senza pretesa di completezza, sulla figura di colui che entrambe le tradizioni considerano come proprio padre fondatore: si tratta di Abramo. Tradizionalmente considerato il fondatore del monoteismo, è primo dei tre patriarchi secondo l’ebraismo, profeta secondo l’islam, oltre che progenitore del popolo ebraico (attraverso il secondogenito Isacco) e di quello arabo (attraverso il primogenito Ismaele).

Il Corano, testo sacro dell’islam, diviso in 114 capitoli chiamati “sure”, cita la figura di Abramo in numerosi passi, con grande rispetto e amore, come primo portatore del monoteismo nel mondo. Vale la pena ricordare che per la fede musulmana il Corano raccoglie le parole rivelate da Dio al profeta Muhammad (Maometto, secondo la dicitura tradizionale italiana) nell’arco di ventidue anni di vita. Buona parte di esso prende proprio la forma di un discorso rivolto dal Signore a Muhammad, espresso in uno stile a metà tra prosa e poesia, più ricco di immagini e allusioni che di descrizioni e riflessioni. Secondo la dottrina islamica, Dio manda periodicamente agli uomini dei profeti per ribadire il messaggio senza tempo del monoteismo: Muhammad, ultimo dei profeti, non propone dunque una nuova religione ma semplicemente ristabilisce il monoteismo originario di Abramo, ponendosi come suo erede diretto. Il ruolo fondativo di Abramo è ben espresso in un dialogo narrato nei seguenti versetti (da 51 a53; da 58 a 63) della sura 21 del Corano (traduzione di A. Bausani, ed. Bur):

E già da prima demmo ad Abramo rettitudine, poiché ben lo conoscevamo. Allorchè disse a suo padre e al suo popolo: “Che cosa sono questi simulacri ai quali siete devoti?” Risposero: “Trovammo che i nostri padri anche li adoravano!” […] E li ridusse in pezzi tutti, eccetto il più grande, perché essi poi accusassero lui. Dissero: “Chi ha fatto questo ai nostri dèi? Certo deve essere stato un empio!” Risposero altri: “Abbiam sentito un giovane che sparlava di loro: lo chiamano Abramo”. Gridarono allora: “Portatelo qui al cospetto di tutti, perché testimonino contro di lui! “Sei tu, chiesero, che hai fatto questo ai nostri dèi, o Abramo?” Rispose: “No, ha commesso ciò questo che è il più grande di loro. Interrogatelo dunque, se questi idoli posson parlare!”

Il passo coranico ripercorre da vicino quanto narrato nel famoso midrash Bereshit Rabbà, 38:13 (traduzione di rav A. Ravenna, ed. Utet):

Disse rabbì Chiyà, figlio del figlio di rabbì Adà di Giaffa: Terach [padre di Abramo] fabbricava idoli. Una volta uscì e mise Abramo a venderli al suo posto. […] [Abramo] andò, prese un bastone e ruppe tutti gli idoli, e mise il bastone nella mano del più grande di essi. Quando tornò, il padre gli chiese: Chi ha fatto loro questo? Gli disse: […] Il più grande di essi si alzò, prese il bastone e li ruppe. Gli disse il padre: Che, tu ti prendi gioco di me? Che, forse essi conoscono?

La somiglianza tra le due versioni della storia, insieme alla sostanziale coincidenza tra la visione ebraica e quella islamica dell’idolatria, è affascinante e apre un’ampia serie di prospettive, che per ragioni di spazio è impossibile approfondire qui. Interessante anche il fatto che il segno della vanità degli idoli è la loro mancanza di coscienza e della capacità di parlare e dialogare, propria degli esseri umani.

Lo stesso racconto riguardante Abramo distruttore di idoli è riproposto nella sura 37:83-98; poco dopo (versetti da 102 a 107) il testo prosegue con un altro dialogo tra Abramo e suo figlio, assai familiare a chiunque conosca anche superficialmente la letteratura biblica:

E quando raggiunse l’età di andar con suo padre al lavoro, questi gli disse: “Figliuol mio, una visione di sogno mi dice che debbo immolarti al Signore: che cosa credi tu abbia io a fare?” Rispose: “Padre mio, fa quel che t’è ordinato: tu mi troverai, a Dio piacendo, paziente!” Or quando si furon rassegnati al volere di Dio e Abramo ebbe disteso il figlio con la fronte a terra, allora gli gridammo: “Abramo! Tu hai verificato il tuo sogno: così Noi compensiamo i buoni!” E questa fu prova decisiva e chiara. E riscattammo suo figlio con sacrificio grande.

La storia ripercorre quella del mancato sacrificio di Isacco, descritto nel cap. 22 della Genesi. Senonché, questo figlio di Abramo è qui, nel testo coranico, anonimo. Secondo la tradizione musulmana si tratta non di Isacco ma di Ismaele (è lo storico musulmano del IX secolo at-Tabari a spiegare e argomentare approfonditamente le radici di questa decisione). A noi sembra invece affascinante, e non casuale, proprio il fatto che il Corano taccia il nome del figlio di Abramo. Chi è che davvero è pronto a sacrificarsi, chi è davvero vittima pura e innocente? Nella Bibbia, a causa della gelosia di Sara, moglie di Abramo, Ismaele viene cacciato nel deserto insieme a sua madre Hagar, nonostante l’amore che il padre prova per entrambi: non è anche questa una forma di sacrificio? Forse lasciare questo genere di domande senza una risposta precisa ne aumenta la portata e la profondità.

Non è poi possibile non menzionare il fatto che secondo l’islam Abramo, Hagar e Ismaele sono figure centrali nelle storie riguardanti i luoghi santi della Mecca e nei riti del pellegrinaggio che ogni musulmano dovrebbe compiere almeno una volta nella vita e che ripercorrono in forma rituale episodi delle storie di questi personaggi.

Nel capitolo 25 della Genesi (versetti 8 e 9) è poi raccontato che, molti anni dopo la cacciata di Ismaele, dopo che lui e Isacco avevano vissuto lontani e senza contatti per molti anni, costoro seppellirono insieme il loro padre (traduzione di rav D. Disegni, ed. Giuntina):

Abramo finì la vita e morì in vecchiezza avanzata, vecchio e soddisfatto, e si riunì alla sua gente. Isacco e Ismaele suoi figli lo seppellirono nella grotta di Machpelà […]

Abramo, morendo, ha operato l’ultimo suo atto di bontà, riunendo per il suo funerale Isacco e Ismaele (non è nemmeno casuale che il testo della Torà sottolinei che sono suoi figli).
Una lettura affascinante della storia dei due figli di Abramo è proposta da rav Jonathan Sacks z’l nel suo Non nel nome di Dio (ed. Giuntina). Secondo rav Sacks, è possibile leggere tra le righe del testo biblico accenni al fatto che, pur nella lontananza, Abramo non aveva mai smesso di amare Ismaele e sua madre Hagar, e che dopo la morte di Sara lo stesso Isacco si era adoperato per ricucire i contatti tra il padre il figlio cacciato. Per dirla con le parole di rav Sacks:

I due fratellastri sono insieme davanti alla tomba del padre. Non c’è ostilità tra di loro. I loro sentieri futuri divergono, ma non c’è conflitto tra di loro, né sono in competizione per l’amore di Dio, che li abbraccia entrambi.

Poco dopo, nel versetto 17 dello stesso capitolo, viene narrata la morte di Ismaele, utilizzando anche per lui l’espressione “si riunì alla sua gente”, che secondo la tradizione rabbinica è riservata solo a menzionare la morte dei giusti. Anche questo è un messaggio non casuale, nascosto nelle pieghe del testo.

In questo periodo tormentato, per il Medio Oriente si sono aperti nuovi e inaspettati spiragli di dialogo e di pace, dopo decenni di silenzio e ostilità, proprio nel nome di Abramo, il campione dell’accoglienza e dell’ospitalità, colui la cui tenda era aperta da tutti i lati proprio per permettere a chiunque di entrarvi. Non possiamo che augurarci che gli sforzi dei discendenti di Abramo per superare le barriere che per troppo tempo li hanno divisi siano coronati da successo.

Davide Saponaro

Testo tratto dal sito della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Sul sito sono presenti programmi, contenuti, approfondimenti, video, gallery fotografiche e percorsi multimediali per scoprire le tante località che aderiscono al circuito. Clicca qui per accedere.

(5 ottobre 2021)