Antonio Debenedetti (1937-2021)

“Sono nato nel 1937 e nel 1938 sono state promulgate le leggi razziali: a un anno già non avevo alcun diritto, solo per il fatto di essere figlio di un ebreo. Nel 1943, quando ci fu il rastrellamento del Ghetto di Roma, riuscii a sopravvivere solo perché i miei genitori mi nascosero. Ma nel mio inconscio ciò che mi sarebbe potuto succedere c’è e ogni tanto prende la forma di un’idea, di un racconto, di un romanzo…”. Spiegava così Antonio Debenedetti, scomparso all’età di 84 anni, il suo impulso a scrivere di storie legate alla propria vicenda personale e familiare. “Non credo – dirà in un’intervista – che non si possa scrivere su ciò che non ci riguarda. I miei racconti non sono astrazioni, sono vita”. Non è un caso se tra i suoi lavori, il noto saggista e scrittore scelse di fare un ritratto del padre Giacomo, grande critico letterario nonché autore di 16 ottobre 1943, testimonianza della retata nazista nel Ghetto di Roma. In Giacomino (Bompiani), descrivendo la figura paterna, dirà: “In Giacomo convivevano due nature, l’una rabbinica e l’altra dominata da un’intelligenza libertina. La prima, la natura del rabbino, lo accompagnava nei rapporti con la famiglia, con lo studio ma non con la scrittura e tantomeno con la creatività. La seconda natura di Debenedetti, quella dominata dall’intelligenza libertina, lo assisteva nei rapporti con le donne e con la propria fantasia critica”. Nel volume si alternano i ricordi di una casa romana – all’Aventino, in via Sant’Anselmo – costantemente frequentata dai grandi della letteratura italiana: da Alberto Moravia a Tommaso Landolfi, da Mario Soldati a Vincenzo Cardarelli, da Alberto Savinio a Umberto Saba. Come raccontano i tanti ritratti di queste ore dedicati ad Antonio Debenedetti, la sua fu una vita da protagonista nella cultura italiana del Novecento.
Una cultura raccontata da giornalista per la Rai e nei tanti anni di collaborazione con il Corriere della Sera. Il suo debutto nel mondo dell’editoria arriverà nel 1972 con Monsieur Kitsch, che aprirà la strada a molte altre pubblicazioni, dai romanzi ai racconti brevi. Un genere, quest’ultimo, di cui molti critici lo descrivono come un maestro. Tra i suoi ammiratori, il citato Moravia: “La sua è un’osservazione più da entomologo che da ritrattista, più pronto ad infilzare con uno spillo l’insetto che talvolta convive con l’uomo, che a ritrovare tratti umani in situazioni e comportamenti da insetti”.
Tra le sue ultime pubblicazioni, Quel giorno quell’anno (Solferino), un doppio racconto dedicato a vite ebraiche travolte dalle leggi razziste e all’indifferenza dei concittadini italiani. “Le umiliazioni imposte dal Regime fascista e dal razzismo che oggi osa rialzare la testa sono (credo di averlo capito a ottant’anni) una nota ricorrente e segreta in tutta la mia opera. Lo sono certamente in questi due racconti”, spiegherà Antonio Debenedetti in concomitanza con l’uscita del libro. E ancora: “Questi racconti toccano una realtà che è dell’oggi. I libri sono veri se continuano a parlare al di là della cronaca. Lo scrittore racconta quello che non si cancella, quello che va nelle coscienze e in esse rimane. Oggi non ci sono più le leggi razziali, ma non per questo la loro drammaticità è svanita. Il razzismo continua a colpire gli ebrei e altre minoranze. La letteratura si può permettere cose che la cronaca non può: uno scrittore dice di un’epoca quello che uno storico, un giornalista e un sociologo non possono dire”.