Periscopio – Geografia dantesca

Abbiamo trattato, nelle scorse puntate di questa ricognizione su Dante e gli ebrei, della rappresentazione, nella Commedia, della distruzione di Gerusalemme e del conseguente esilio come una punizione divina del popolo ebraico. Abbiamo detto che la visione dantesca non rappresenta una novità teologica, ma pare, anzi, interpretare una concezione meno drastica di tale punizione, giacché la “vendetta de la vendetta del peccato antico” si realizza solo sul piano storico e, nel 70 E.V., trova il suo definitivo compimento. Colpisce una sola generazione di ebrei, quelli vissuti tra il 33 e il 70, per cui la condanna appare, sì, collettiva, ma non eterna, tanto che Dante, come abbiamo scritto, non chiude agli ebrei dell’era volgare le porte del Paradiso, esplicitamente aperte per quelli vissuti invece prima.
Il fatto che gli ebrei, rimasti senza patria, siano costretti a peregrinare tra le nazioni resta un elemento caratterizzante della loro identità di popolo e di nazione, ma ciò è descritto da Dante senza alcun compiacimento e animosità, come un semplice dato di fatto, una circostanza storica che assume poi un connotato geografico.
Ciò si evince, per esempio, nel IV Canto del Purgatorio, quando Virgilio spiega che il monte Sion è collocato sulla Terra in posizione opposta rispetto alla montagna del Purgatorio (67-71): il maestro e il discepolo, trovandosi appunto nel Purgatorio, hanno pertanto l’Equatore a nord, mentre gli ebrei, al tempo in cui abitavano in Giudea (e spiace vedere come molti illustri commentatori della Commedia usino spesso, erroneamente, il termine Palestina, che, nel 70 E.V., non esisteva), lo avevano a sud: “quindi si parte/ verso settentrïon, quanto li Ebrei/ vedevan lui verso la calda parte” (82-84). Una semplice annotazione geografica, priva di alcun contenuto polemico.
E lo stesso può dirsi per i versi del XXIX Canto del Paradiso, il cd. “secondo Canto degli Angeli”, nei quali Beatrice commenta il passo evangelico (Matth. 27.45, Marc. 15.33, Luc. 23.44) ove si narra che, alla morte del figlio di Dio, il sole si sarebbe oscurato, sì da portare il buio su tutta la Terra. Di tale notizia alcuni (tra cui lo stesso San Tommaso d’Aquino – S.T. III, 44.2 – pur non citato) avevano proposto – spiega Beatrice – una spiegazione di ordine scientifico, pensando a una eclissi di luna (“la luna si ritorse/ ne la passion di Cristo e s’interpuose,/ per che ‘l lume del sol giù non si porse”: 99-97), ma ciò sarebbe errato, perché la verità è che il sole scelse spontaneamente (“da sé”) di ritirare i suoi raggi, in modo da non permettere che si vedesse l’orrore della croce (è questa l’opinione di Girolamo [in Evang. Matth. 4], seguita da Dante). Non si spiegherebbe, altrimenti, come mai tale eclissi avrebbe portato il buio su tutto il pianeta, così da essere visibile tanto dagli ispanici, quanto dagli indiani e dagli ebrei (“a li Spani e a l’Indi/ come a’ Giudei tale eclissi rispuose”: 101-102), cosa impossibile in natura, giacché l’interposizione della luna tra il sole e la Terra può essere visibile solo in una determinata zona del globo, mai dovunque.
Gerusalemme, secondo la concezione astronomica del tempo di Dante, era posta al centro della terra abitata, e fu da lì che gli ebrei (che, in quel tempo, abitavano in quella regione) assistettero al prodigio, ma lo stesso accadde agli abitanti dell’estremo Occidente (in Spagna, dove sono le Colonne d’Ercole) e dell’estremo Oriente (l’India). Anche qui, siamo di fronte a un semplice richiamo geografico e storico: al tempo, gli ebrei abitavano in Giudea.
Questi due passi della Commedia, a mio avviso, vanno interpretati non solo per quello che dicono, ma anche per quello che non dicono. Difficile, infatti, per il pensiero antisemita, di fronte alla realtà storica e geografica della dispersione del popolo ebraico, e alla sua perdita della patria, resistere alla tentazione di annotare che la persistenza di tale dato di fatto è dovuta alla persistente nequizia dei ‘deicidi’. Leggiamo, al proposito, il giudizio di Pascal (Pensieri 640): “Dio ha promesso loro che, pur disperdendoli fino ai confini del mondo, li avrebbe tuttavia riuniti, se fossero rimasti fedeli alla sua legge. Essi le sono fedelissimi, e rimangono oppressi”. Dante non ha mai ragionato in questi termini. La punizione si è compiuta una solo volta, nel 70 E.V., non c’è bisogno di ulteriore sofferenza.
Ma, anche riguardo a questa punizione “una tantum”, c’è da ricordare una cosa molto importante. Nel VII Canto del Paradiso Beatrice risponde a una tacita domanda, di cruciale importanza, che esprime un dubbio, sentito da Dante in modo molto profondo e doloroso, riguardo all’intellegibilità e razionalità della giustizia divina. Se la morte del figlio di Dio era necessaria, come riscatto del peccato originale, come mai essa andava comunque punita, con la distruzione di Gerusalemme? (“come giusta vendetta giustamente/ punita fosse”: 20-21).
Sulla natura di tale risposta (a mio avviso, ripeto, di estrema rilevanza) diremo qualcosa nella prossima puntata.

Francesco Lucrezi