“Un libro ebraico, tante storie”

Seduti a un tavolo quattro esperti di libri ebraici per anni si sono trovati per aggiornarsi sui propri studi e ricerche, ma anche per porsi una domanda: cosa mancava nel loro lavoro? Qual è l’informazione che spesso non avevano a disposizione quando prendevano in mano volumi secolari stampati in Polonia, in Italia, in Germania? La risposta comune era stata una: non si sapeva abbastanza dei percorsi che queste pagine avevano fatto nel corso dei decenni. Quale itinerario ad esempio aveva portato un libro stampato a Mantova nel 1556 il Sefer HaBahur fino ad essere custodito dal 1892 nella biblioteca dell’americano Columbia College?
Così, racconta Adam Shear, docente dell’Università di Pittsburgh, è nata l’idea di “Footprints: Jewish Books Through Time and Place”, un database per tracciare la circolazione dei “libri ebraici” stampati. Ricostruendo i passaggi di mano di questi volumi, spiega Shear a Pagine Ebraiche, è possibile capire meglio i legami interni al mondo ebraico, così come quelli con la società circostante. “Sappiamo ancora poco dei principali modelli di scambio culturale e intellettuale tra gli ebrei di diverse regioni e tra gli ebrei e i loro vicini, delle abitudini di lettura delle comunità ebraiche e del ruolo di determinati centri nel dirigere la cultura della stampa”, aggiunge lo studioso. Footprints si propone di comprendere meglio proprio questi elementi, seguendo le impronte lasciate in giro per la storia dai volumi stampati e dai loro possessori. E intrecciandosi anche con altre iniziative dedicate al Libro ebraico, in particolare con il progetto promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane I-Tal-Ya Books e presentato al grande pubblico proprio in questo inizio autunno in cui, con il Salone Internazionale di Torino, la carta stampata è assoluta protagonista.

Footprints in una certa misura rovescia l’attenzione classica sul libro: non vi concentrate sul suo contenuto, ma sui segni lasciati da chi lo possedeva. Come è nata questa idea e qual è il suo significato?
L’idea è venuta nel corso degli incontri periodici con alcuni amici: Marjorie Lehman (Jewish Theological Seminary of America), Michelle Chesner (Columbia University Libraries) e Joshua Teplitsky (Stony BrookUniversity). Dalle nostre conversazioni è emerso un dato: non sappiamo abbastanza del modo in cui i libri si sono spostati nel corso del tempo. Ma è un elemento che ci permette di capire molto delle dinamiche interne alle comunità ebraiche. Per questo abbiamo avviato Footprints: iniziato come un piccolo progetto, abbiamo poi coinvolto alcuni ricercatori nelle biblioteche e anche studenti che lavoravano su diversi materiali, cataloghi d’asta e così via.
Oggi l’iniziativa coinvolge diverse grandi istituzioni e può contare su una collaborazione internazionale. L’obiettivo è creare un database di informazioni relative alla circolazione delle copie di edizioni stampate di libri ebraici, libri in altre lingue ebraiche o in latino e altre lingue che abbiano un significativo contenuto ebraico. Il periodo di riferimento va dalla nascita della stampa fino alle seconda metà dell’Ottocento. Nel database si trovano le impronte che rendono unico ciascun volume. Impronte che raccogliamo noi e che ci vengono inviate.

Quali sono queste impronte?
Marginalia, iscrizioni scritte a mano, timbri dei censori, trasferimenti di proprietà, firme, annotazioni, ma anche cartoline o stralci di giornale, e altri segni che caratterizzano ogni singolo volume che diventa così un artefatto a sé. Un artefatto che ci apre a mille domande: è stato venduto a qualcun altro? È stato confiscato? È stato rovinato in un incendio? È stato perso in un naufragio? Perché i proprietari l’hanno rilegato con altri libri? Ci hanno preso appunti? Vi hanno conservato dentro i documenti di famiglia? Hanno prestato il libro ai loro amici?
Il progetto esamina tutto, oltre al testo vero e proprio, per tracciare la vita di un libro. Ora abbiamo circa diciassettemila impronte nel nostro archivio, quelli che chiamiamo pezzi di prova
che ci raccontano di un volume che cambia di mano o che si trova in un particolare luogo e tempo. Anche la censura da parte della Chiesa ci aiuta in questa percorso.

In che modo?
Ad esempio sappiamo che un libro stampato a Venezia nel 1540 è arrivato a Mantova in una famiglia molto probabilmente ebraica. Lo sappiamo non perché conosciamo i proprietari, di cui non sappiamo nulla, ma perché abbiamo l’impronta del censore Giovanni Domenico Carretto che nel 1607 interviene a Mantova su indicazione dell’Inquisizione. Vediamo che il censore ha cancellato ogni passaggio considerato inaccettabile dalla Chiesa e ha firmato poi il volume. Ora risalendo a tutto questo, noi conosciamo un pezzo di storia del libro.

Quante sono le copie di cui al momento avete queste tracce?
Sono circa 7000 copie singole, 4500 edizioni diverse, 2500 opere letterarie. E ora nel database abbiamo anche oltre 8000 nomi di persone: autori e stampatori, ma anche proprietari, commercianti di libri, censori, archivisti delle librerie. E abbiamo appena iniziato a scandagliare chi siano queste persone e, ad esempio, vedere quante di queste siano donne. E non è un dato scontato che ci fossero donne che possedevano libri nel Cinquecento e Seicento. Alcune erano totalmente sconosciute fino ad oggi.

In tutte queste ricerche c’è una storia che l’ha particolarmente colpita?
Al momento c’è una storia su cui vorrei fare ulteriori ricerche: quello di una donna, Rachel, che viveva a Cunico (Asti). Non sappiamo molto su di lei, sappiamo che ha ereditato dal marito nel 1570 un catalogo di libri. Abbiamo la lista di questi volumi e una delle cose che mi piacerebbe fare è confrontarla con i libri pubblicati in quell’epoca in Italia. In questo modo possiamo vedere se la “selezione di Rachel” era una biblioteca tipica dell’epoca. Oppure era diversa dalle altre. È un modo per comprendere meglio il contesto culturale. Progetti come Footprints, ma anche come I-Tal-Ya Books (di cui Shear è membro del comitato scientifico), aiutano anche in questo: ad aprire nuove finestre sulla storia ebraica.

Lei ha definito questi progetti anche come divertenti, può spiegarci cosa intende?
Sono piacevoli, sono interessanti. Si lavora con altre persone. La vita del bibliotecario o dello studioso di scienze umane è spesso molto solitaria. Ti siedi davanti a un catalogo o ti siedi tra i libri, fai ricerca, così come lo storico si siede da solo in un archivio. Tutti questi progetti sono invece collaborativi: vi partecipano storici, archivisti, bibliotecari, così come tecnici. E grazie a queste relazioni impariamo anche cose diverse da quelle del nostro campo specifico. Da questa interazione inoltre, da questo piacere di collaborare, si ha poi un risultato finale più forte, più approfondito.