Storie di Libia – Daniela Dawanr

Daniela Dawan, ebrea di Libia. Aveva 10 anni quando fu costretta a causa del pogrom del 67 a lasciare la Libia. Dedica la sua intervista alla memoria dei genitori. La sua famiglia era tradizionalista e moderatamente osservante. Il padre era un imprenditore di successo e aveva molti amici arabi in ambito lavorativo. Da ragazzina ricorda di non aver avuto amici arabi, anzi lei e il  fratello Carlo non potevano mai girare per strada senza suscitare smorfie, insulti e a volte anche schiaffi. Ricorda che era stata molto sorpresa quando, camminando per le strade di Roma, dove la famiglia si recava spesso, poteva passeggiare senza essere additata e derisa. A Tripoli frequentavano la scuola elementare delle suore. Spesso provavano a convertirli e c’era un alone di antisemitismo anche se moderato nella classe. Quando iniziò il pogrom, lei e il fratello si trovavano a scuola con le suore che sin da subito sollecitavano i genitori perché venissero a prenderli. Questi, però, assediati da arabi armati, non potevano uscire di casa. Il padre aveva consegnato a tutti coltelli da cucina per difendersi. Aveva armato anche le donne, persino la nonna, una persona molto esile di cui Daniela ricorda l’eterna boccetta di valeriana per calmare le palpitazioni. Sua madre si era preparata mentalmente a gettarsi dalla finestra del terrazzo in caso fossero entrati gli arabi in casa. Le suore chiamavano spesso e insistevano dicendo che non potevano ospitare i bambini, che la loro presenza metteva in pericolo l’istituto, che li avrebbero messi in strada se non fossero andati a prenderli subito. La madre le supplicava dicendosi certa che non sarebbero usciti vivi da casa. Il dottor Abdullah Hassan, un noto medico afgano, si era offerto di andare a prelevare Daniela e Carlo ma l’avrebbe fatto portandoli a piedi, perché anche la sua auto era stata data alle fiamme.
Wanda Ortona, la madre dei bambini, gli aveva risposto di no: se, per strada, gli arabi li avessero riconosciuti? L’intervento energico dell’ambasciatore italiano costrinse le suore ad ospitarli per la notte, in nome della carità cristiana che evidentemente le suore per la paura non mostravano di avere. Il padre godeva dell’amicizia di persone molto potenti, e uno di loro, musulmano si offrì di aiutarlo, la sua casa confinava con il muro di cinta della scuola. Così i genitori di Daniela e Carlo furono prelevati da una camionetta della polizia che li portò a casa dell’ospite arabo dove trascorsero una notte. Una permanenza breve e molto dura psicologicamente. Alla radio trasmettevano false notizie di vittoria araba e il figlio dell’amico esultava ascoltando la propaganda menzognera. A distanza di così tanti anni Daniela ha ancora qualche scambio di messaggi con questo signore arabo che determinò il successo della loro fuga dalla scuola. L’indomani mattina i genitori li andarono a prendere e le suore li trascinarono fuori dalla scuola senza nemmeno dar loro il tempo di infilare le scarpe. Il giorno dopo di spostarono tutti nella casa dei nonni paterni e grazie alle amicizie influenti il padre ottenne il visto per tutta la famiglia. A lui fu concesso per ultimo. Così lasciarono Tripoli e alla madre che piangeva mentre l’aereo si allontanava il padre offrì una bottiglia di champagne per brindare alla vita e alla libertà! Nel tempo la madre si rivelò felice di vivere in Italia mentre il padre era sempre attento ad ogni notizia proveniente dalla Libia, probabilmente nel cuore aveva nostalgia di quello che aveva costruito e della sua posizione sociale.  Alla domanda se il trauma fosse rappresentato dal vivere in Libia o dal lasciarla così drammaticamente, Daniela considera, col senno di poi, che il vero trauma era sicuramente viverci. Ma questo non le risparmia la nostalgia verso i luoghi cari, odori e colori di quella terra dove è sepolta la sorellina morta alla nascita. Insomma, un nostalgico struggimento in conflitto con le barbarie subite, la mancanza del rispetto verso i luoghi di sepoltura, verso i luoghi di preghiera che rende difficile credere che queste persone responsabili dei pogrom avessero rispetto per la religione. Daniela considera che la necessità di andare avanti abbia avuto sicuramente il sopravvento su tutto. In ogni generazione gli Ebrei hanno subito persecuzioni e sono sopravvissuti grazie a D.O. Nel nostro antichissimo popolo sempre ha prevalso la coscienza di identità ebraica rispetto alla nazionalità. Delle tradizioni Daniela mantiene e tramanda, oltre alle liturgie, le tradizioni culinarie tripoline. Ricorda alcune abitudini tipiche come versare l’acqua sul pianerottolo prima della partenza e David Gerbi risponde con l’uso di versare un cucchiaio di acqua e zucchero affinché il viaggio fosse dolce e abbondante. La famiglia di Daniela si è dispersa come tutte le famiglie tripoline e lei si sente a casa dove è la madre, persa di recente. È molto grata alla madre che le ha insegnato fortemente l’amore per la vita. Ricorda che prima del funerale del fratello Marcello Ortona, la madre avesse offerto lo champagne per brindare alla vita, sentimento molto ebraico, e le avesse insegnato a non temere la morte perché è parte della vita stessa. Alla domanda se ritiene opportuno cercare di recuperare quanto confiscato Daniela, giudice della Corte di  Cassazione, convinta di dover sempre lottare contro le ingiustizie, replica che considera che queste cose dovrebbero essere oggetto di trattative tra governi. Per la preservazione di sinagoghe e cimiteri probabilmente ritiene dovrebbero essere considerati testimonianza storica da organi come l’UNESCO. Solo dopo aver risolto queste due problematiche reputa opportuno provare a richiedere un monumento commemorativo. Personalmente Daniela considera che se non fosse uscita dalla Libia non avrebbe potuto realizzarsi come persona e professionista. Della donna ebrea di Libia ama l’attaccamento, l’amore e la devozione alla famiglia e in generale, di tutti gli ebrei di Libia, il grande senso etico e morale, il calore, l’onestà e l’accoglienza.  

Clicca qui per l’intervista video

(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano