G20 straordinario sulla crisi afghana
“Non si può rimanere indifferenti”

Ha preso il via in queste ore il G20 straordinario dedicato all’Afghanistan e alla gestione della crisi emersa con la presa del potere nel paese da parte dei talebani. Il summit, nell’ambito della Presidenza italiana, è stato fortemente voluto dal Premier Mario Draghi e vuole costituire un piano condiviso per aiutare la popolazione afghana. “Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare un grave collasso umanitario e socio-economico in Afghanistan. Dobbiamo farlo in fretta. Siamo stati chiari sulle nostre condizioni per qualsiasi impegno con le autorità afgane, compreso il rispetto dei diritti umani”, il commento in apertura di G20 della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Non si può restare indifferenti di fronte a questa crisi umanitaria che coinvolge il mondo intero, ha ricordato von der Leyen. Un monito richiamato anche nell’ultimo dossier di Pagine Ebraiche dedicato proprio alla crisi afghana. “Indifferenza da respingere” il titolo di apertura di un dossier in cui si ricorda l’impegno del mondo ebraico, italiano ed internazionale nel dare risposte e aiuti concreti alla popolazione in un paese al collasso. Un Afghanistan i cui problemi però sono molteplici e non solo legati al potere jihadista, come spiega nel dossier il giornalista israeliano Itai Anghel, che vent’anni fa raccontò sul campo l’ingresso nel paese delle forze Usa.

Quando nel 2001 il giornalista israeliano Itai Anghel era arrivato in Afghanistan pensava di assistere a una guerra di liberazione in cui gli afghani, con l’intervento americano, avrebbero avuto la possibilità di costruirsi un paese diverso, libero dal regime talebano. Di provare a mettere in piedi una democrazia. “Pensavo che esistesse una nazione afghana in grado di emanciparsi – spiega a Pagine Ebraiche a 20 anni da quel conflitto – Quando ho seguito le forze di sicurezza afghane però ho iniziato a percepire qualcosa di strano: la sensazione era che in diversi casi
non si entrasse nelle città per liberarle, ma per chiudere dei conti. Ho assistito a quella che sembrava una vera e propria caccia alle streghe”. Villaggio dopo villaggio, ricorda Itai, uno dei reporter di guerra più noti d’Israele, il meccanismo era quasi sempre lo stesso. “Vedevo uomini additare i propri vicini di essere i talebani. Così a voce, senza portare prove. E gli accusati, senza processo, senza possibilità di difendersi, venivano presi, caricati su un camion, scaricati poco lontano e giustiziati. Non potevo crederci. Se non avessi filmato tutto, forse avrei pensato che non fosse vero. Lì ho iniziato a capire che l’Afghanistan come nazione non esiste. Esiste un paese diviso tra molte etnie – pashtun, tagiki, hazari, uzbeki e così via – in cui ciascuno si occupa del proprio gruppo, dei propri legami”. Per questo, racconta oggi il giornalista, non si è stupito di come l’esercito afghano, nonostante i miliardi spesi dagli Stati Uniti, si sia dissolto davanti all’avanzata talebana mentre Washington ritirava in fretta e furia i suoi uomini. Avrebbe voluto essere lì per vedere con i suoi occhi la fine di un’occupazione ventennale, iniziata con l’obiettivo di cancellare il potere talebano e sradicare la minaccia di al-Qaeda. “Ma un mio contatto locale, un amico giornalista, mi ha detto chiaramente di non venire. Sarei diventato un bersaglio e lui stesso aveva una sola priorità: fuggire. Lui e altri mi hanno raccontato di come soldati dell’esercito regolare afghano, di fronte all’avanzata talebana, abbiano buttato via i propri fucili, si siano cambiati d’abito e abbiano applaudito l’ingresso dei jihadisti”. Un racconto desolante, diventato ben presto di dominio pubblico nel corso delle settimane. “Un popolo che non cerca di salvare se stesso, non può essere salvato da altri. Per questo capisco l’origine del ritiro americano”, spiega Itai. Non la modalità. “È stata una fuga e di fatto una sconfitta. Migliaia di persone che si sono sì sacrificate per aiutare Stati Uniti e i loro alleati sono rimaste indietro. Abbandonate”. La messinscena talebana in cui dichiaravano al mondo di essere cambiati, di essere diventati più moderati, aveva forse trovato sponde in Occidente. Ma gli amici e le fonti di Itai gli hanno subito detto di non credere a quelle menzogne. “Esemplare – aggiunge – è il caso di una manifestazione di donne senza velo. Finché c’erano le telecamere a seguirle nessuna ritorsione”. Spenta l’attenzione, la repressione talebana nel nome della Shaaria è ricominciata con estrema durezza. “Per loro persino una donna violentata può essere considerata un’adultera”. Una visione distorta e violenta della realtà che, con il ritiro Usa, ha potuto presentarsi come vincente. “Il messaggio agli islamisti di tutto il mondo è stato: abbiate pazienza e alla fine, come è accaduto per noi talebani, vincerete”.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Ottobre 2021