Machshevet Israel
Darkè shalom

I maestri del pensiero rabbinico non avranno forse tematizzato il ‘principio dialogico’ (praticando sistematicamente il dialogo, non sentirono il bisogno di teorizzarlo), ma hanno certamente elaborato un concetto che gli è contiguo, noto come mi-shum darkè shalom, ‘a motivo delle vie della pace’ cioè ‘allo scopo di mantenere buoni rapporti’. Nel presentarlo, rav Giuseppe Laras zl – un’icona ebraica del dialogo interreligioso in Italia – spiega trattarsi di un principio halakhico teso a “rimuovere preventivamente, nelle relazioni fra persone, tutto ciò che può impedire o pregiudicare un approccio amichevole duraturo (sospetti, invidia, animosità e così via)… [e come tale] ha da sempre riguardato in prevalenza i rapporti tra ebrei e non ebrei, pur essendo valevole anche nei rapporti ‘interni’ tra ebrei”. Che tale principio compaia in alcuni passaggi del trattato di Maimonide sull’idolatria (Hilkhot ‘avodà zarà X,5), che è parte del Sefer ha-madda‘ o Libro della conoscenza del suo Mishnè Torà, non sorprende, dal momento che esso è dedicato al rapporto dei figli di Israele con i non ebrei, più o meno idolatri che siano. Sebbene l’idolatria resti un abominio (e pur dovendo definire in che consista un culto idolatrico, cosa tutt’altro che semplice), secondo il Rambam occorre da parte ebraica agire nei confronti degli idolatri in modo tale da evitare che sorgano conflitti e inimicizie. Si potrebbe tradurre così: agire in modo da evitare di alimentare sentimenti antisemiti.
Questa traduzione può irritare, e di certo solleva perplessità. Dovrebbero forse gli ebrei agire condizionati dal rischio che le loro azioni o i loro simboli suscitino avversione o, peggio, odio contro di loro? Non è l’antisemitismo un problema degli antisemiti, che non deve condizionare il mondo ebraico? Tutti sappiamo quante energie vengano impiegate per lottare contro l’antisemitismo (si pensi ai dibattiti tutt’ora aperti circa la sua stessa definizione e le policies che ne derivano). E molti – io tra costoro – a tanto sfibrante, e purtroppo necessario, lavoro di ‘anti-antisemitismo’ preferiscono combattere il pregiudizio mostrando, in positivo, la ricchezza della tradizione ebraica, il suo vasto orizzonte valoriale, la sua capacità profetica di agire in modo responsabile, il suo senso critico e il suo apprezzamento per la complessità del mondo. Sta in tutto questo lavoro il senso dell’espressione rabbinica mi-shum darkè shalom?
A ben vedere, il principio sembra elaborato e addotto a giustificazione di comportamenti dai quali, altrimenti, potremmo astenerci. Potremmo – o dovremmo – astenerci dall’aiutare ‘i poveri di tra gli idolatri’, per stare al caso specifico posto dal Rambam, in quanto l’aiutarli potrebbe indurre a pensare che la loro pratica idolatrica sia accettabile (quando invece è un abominio). Ma se non aiutassimo anche, ripeto anche, i poveri degli idolatri, questi potrebbero pensare che nutriamo odio nei loro confronti, oppure che li discriminiamo, e ciò causerebbe una reazione di odio anti-ebraico, non supposto ma reale, che potrebbe tradursi in pogrom o in guerra. A questo punto si comprende come darkè shalom costituisca un principio che interviene a sanare non solo un potenziale conflitto con i vicini non ebrei, ma anche a placare un possibile scontro tra due valori ebraici: da un lato, la strenua testimonianza a favore dell’ichud ha-Shem, l’unità/unicità divina, e dall’altro la tolleranza, se non il rispetto, nei confronti di chi predica e pratica il contrario (negando uno dei fondamenti del giudaismo stesso).
Il valore dello shalom che è pace e integrità, sembrano dire i maestri di Israele, è così grande che va perseguito anche a scapito della verità, o almeno della sua pienezza. Infatti, se siamo in buoni rapporti con i nostri vicini idolatri, la nostra testimonianza dell’ichud ha-Shem può essere ascoltata e recepita; se siamo in cattivi rapporti con loro è molto probabile che la nostra testimonianza sia, a priori, rifiutata. Pertanto, i darkè shalom – i buoni rapporti – possono essere intesi come una propedeutica a quella testimonianza, un metodo che, pur sembrando una concessione o un compromesso o un minor male, resta nondimeno un metodo, uno strumento per un fine superiore.
Ma anche questa spiegazione può essere problematica. Qual è il senso della testimonianza ebraica? Indurre gli idolatri a rinunciare alla loro idolatria? Non è questa una forma di missione o di proselitismo, a cui da un paio di millenni il giudaismo ha rinunciato? Infatti non v’è traccia, nel trattato maimonideo sull’idolatria, di un tale scopo, che dunque è alieno dall’orizzonte del pensiero ebraico, oltre che dell’halakhà. Qual è allora lo scopo di prevenire i conflitti: starsene ciascuno nel proprio brodo di credenze e prassi, ignorando i vicini? Qual è la vera posta in gioco del principio mi-shum darkè shalom? Può essere visto come una forma di auto-censura? E poi, last but not least, esistono ancora gli idolatri? Esiste l’idolatria per i non ebrei, se non riconoscono l’ichud ha-Shem e non hanno una brith da onorare? Oppure essa costituisce la ‘madre di tutte le trasgressioni’ solo per il popolo ebraico?

Massimo Giuliani, Università di Trento