Lo sciopero dei portuali
Quando penso a uno “sciopero” mi viene automaticamente in mente il film “i compagni” di Mario Monicelli (1963). Forse perché sentii qui per la prima volta questa parola. Una pellicola di Monicelli poco conosciuta che da piccolo io e mio padre guardavamo spesso. Il contesto è la Torino di fine Ottocento. In una fabbrica tessile l’ennesima morte di un operaio spinge i lavoratori a richiedere ai propri “padroni” una riduzione dell’orario di lavoro da quattordici a tredici ore giornaliere. Il gruppo raggiungerà una certa coesione e forma ideologica soprattutto grazie all’arrivo in città del professor Sinigaglia – un cognome indubbiamente ebraico – il quale esorterà gli operai allo sciopero ad oltranza con lo scopo di spingere i padroni ad accettare le loro istanze.
Per quanto l’orario di lavoro in una fabbrica al giorno d’oggi di norma non superi le otto ore giornaliere e trovare lavoro in una delle poche fabbriche sopravvissute in Italia sia diventato per paradosso quasi un colpo di fortuna, non è che il mondo del lavoro in generale goda di ottima salute. Oltre alla disoccupazione, le fabbriche appunto chiudono e si spostano altrove, si continua a morire sul posto di lavoro, ma negli ultimi anni soprattutto sono emerse altre piaghe nel mondo occupazionale. Come per esempio contratti lavorativi che inevitabilmente incentivano precarietà e sfruttamento e sono privi dei più elementari diritti. Raramente però in questi anni ho sentito parlare di uno “sciopero a oltranza” come quello minacciato dai lavoratori portuali di Trieste. Una città dove il lavoro negli ultimi decenni davvero è mancato, con la perdita dagli anni Sessanta ad oggi di circa sessantamila abitanti, e dove il porto con una strada davanti apparentemente spianata rappresenta una delle poche reali risorse dell’area.
Dunque gli operai della Torino di Monicelli scioperavano per un lavoro più dignitoso per far sì che in fabbrica non si morisse con quei turni massacranti ma anche perché sognavano un mondo diverso, più equo e solidale, protestavano quindi anche per le generazioni successive.
I portuali di Trieste sembrano scioperare, al contrario, per la “libertà” di fare a modo loro senza interessarsi del resto della collettività, o meglio per la libertà di “contagiarsi” liberamente a discapito di loro stessi e degli altri lavoratori. Stupisce, o forse neppure troppo in realtà, che Trieste sia diventata negli ultimi mesi una vera e propria roccaforte “no vax” e “no green pass”. Ripenso alle parole del poeta sloveno Srečko Kosovel: “Trieste ha un cuore malato”.
Francesco Moises Bassano
(15 ottobre 2021)