La prefazione di Giuliano Amato
L’ebraismo e l’impegno laico

Ha fatto bene Giorgio Sacerdoti a raccogliere in questo volume i tanti scritti con i quali, nel corso dei decenni. ha trattato sotto diversi profili il rapporto fra ebraismo e diritto. La mole stessa del volume dice da sola al lettore quanto dobbiamo, in termini di analisi e di riflessioni, a un giurista, non solo sempre presente davanti agli eventi e ai dibattiti che i sono succeduti, ma che tale è stato – non dimentichiamolo – anche su temi diversi da quelli qui trattati. Sacerdoti è, a dir poco, uno studioso e un operatore del diritto molto versatile, con una meritata notorietà nel campo del commercio internazionale e dei relativi arbitrati, in quello dell’anticorruzione, nello studio dell’europeismo, delle sue radici e delle sue finalità.
Certo, il tema dell’ebraismo e il diritto lo ha studiato e soprattutto vissuto più di ogni altro, in primis attraverso le vicende che hanno interessato la sua famiglia e lui stesso a partire dalle leggi razziali del 1938. E sebbene siano tanti, tantissimi i casi che dimostrano gli effetti sconvolgenti di quelle leggi, il caso della famiglia Sacerdoti sottolinea come pochi la tragica assurdità del solco che si volle scavare fra gli italiani sulla base di una diversità religiosa definita e maltrattata come diversità razziale. Penso, nel dir ciò, al padre di Giorgio, Piero Sacerdoti, alto dirigente assicurativo che apparteneva a quell’elite di manager umanisti incarnata anche da altri italiani del tempo e simboleggiata da Raffaele Mattioli. Non c’erano differenze fra questi uomini, ma ci fu chi, tra loro, dovette abbandonare tutto e fuggire, evitando solo in tal modo di essere deportato e quindi ucciso.
È e rimane una macchia senza pari nella storia dell’Italia unita, specie per il legame che ebbe con l’orrore della Shoah, e su di essa intendo tornare prima di concludere questa breve prefazione. Ora però, per offrire a chi si accinge a leggere il volume chiavi di lettura utili, serve anche ricordare che nella lunga storia dell’ebraismo la vicenda delle leggi razziali italiane è, purtroppo, soltanto una delle tante che hanno abituato le persone di quella religione a mantenere e a difendere la propria identità nelle condizioni più difficili. In particolare, ci si è trovati molto spesso affidati soltanto a se stessi e alla propria capacità di sopravvivenza in condizioni nuove, alle prese con situazioni che nulla e nessuno aveva prima insegnato a fronteggiare. Nemmeno i principi e le regole della religione.
Ebbene, io leggo anche questo in uno dei tratti dell’ebraismo che più mi colpiscono e che Sacerdoti, non solo attraverso le pagine qui pubblicate, mi ha insegnato a capire. La religione ebraica è fra quelle più dotate di regole comportamentali e quindi, potenzialmente, è fra le più intrusive nella vita quotidiana delle persone. Eppure, se vi sono comunità ortodosse che pretendono e praticano tale intrusione, sono per converso tanti gli ebrei che vivono la medesima religione con molta maggiore libertà interpretativa Ma tutti condividono, quando la frequentano, la stessa sinagoga e gli stessi riti. Che cos’altro se non la storia ci spiega questa diversità di atteggiamenti e ci aiuta a capire, insieme, che essa non rompe la comune identità ebraica, ma la connota con una sorta di ormai acquisito pluralismo interno?
C’è poi un altro aspetto del rapporto con le regole, su cui pesano, a mio avviso, le medesime matrici storiche. È il bilanciamento che in più momenti si è saputo fare fra il mantenimento delle proprie regole e l’acquisizione di statuti migliori dei precedenti nelle società di cui si era parte. La fine del ghetto a Mantova dopo l’arrivo delle truppe napoleoniche a fine Settecento portò all’ingresso entro le regole generali e, con esse, alla rinuncia a regole tutte esclusivamente ebraiche che nella separatezza del ghetto avevano avuto vigore. Più di recente – ed è una vicenda che Sacerdoti ed io abbiamo vissuto insieme – la stipula dell’intesa con lo Stato italiano comportava la rinuncia all’obbligatorietà del contributo finanziario, che le regole interne imponevano invece a tutti gli appartenenti alla comunità. E la rinuncia c’è stata.
Si afferma, con questa capacità di adattamento imparata nel corso della storia, una qualità nel rapporto con lo Stato che non saprei definire altrimenti che con la parola laicità; una qualità che altre religioni, con una storia diversa, hanno avuto ed hanno ben maggiori difficoltà ad accettare. Basti ricordare che vi sono ordinamenti nei quali ancora oggi la differenza fra regole religiose e regole pubbliche non è neppure tracciata. Con la conseguenza di rendere anche concettualmente inconcepibile che le regole pubbliche possano portare, in ragione della loro natura, alla rinuncia a talune di quelle attribuite alla religione. Qui la laicità non ha proprio neppure uno spazio.
Tutto ciò va a riflettersi sulla nozione stessa di libertà religiosa, alla quale Sacerdoti tante volte fa riferimento. Per chi ha alle spalle le persecuzioni che segnano la storia ebraica, la libertà religiosa ha un suo nucleo essenziale, che neppure ha bisogno di essere definito, tanto è netto e intangibile. Ma allo stesso tempo ha anche dei limiti, laicamente e realisticamente accettati, in nome delle ragioni e dei valori degli altri e non soltanto di quelli comuni all’intera società. C’è qui un profilo, non condiviso da tutti, che è proprio Sacerdoti a segnalarci: lo spazio da riconoscere agli altri va riconosciuto alle loro stesse diversità e quindi non attraverso schermi che le nascondono in nome di una neutralità statale astrattamente intesa. Insomma –dice Sacerdoti- l’ora di religione a scuola o si fa o non si fa. Se è ora di religione vengano il prete cattolico, il rabbino, l’imam e parlino ciascuno della sua religione. Non li nascondiamo dietro un astratto insegnamento di storia delle religioni, che finisce per non parlare di nessuno. Può non piacere, ma è sempre più vero in paesi nei quali il fenomeno religioso è un fenomeno sempre più pluralista.
Torno alla memoria, alla memoria delle leggi razziali e della Shoah, perché ne scaturisce un altro, non cancellabile capitolo del rapporto fra ebraismo e diritto. E’ un capitolo del quale con lo stesso Sacerdoti avevamo rievocato il ricordo tre anni fa, in occasione dell’ottantesimo anniversario di quelle leggi. Ed è non cancellabile perché non può esserlo la vergognosa pavidità con cui il ceto dei giuristi di allora, salvo rare eccezioni, le condivise o, quanto meno silenziosamente, le accettò. Si trattò di un autentico tradimento dei chierici, che tale fu dal punto di vista umano, dal punto di vista civile, dallo stesso punto di vista del dritto e dei suoi principi fondanti.
Lo fu dal punto di vista umano, perché a causa di quelle leggi colleghi con i quali si era lavorato per anni in condizioni di naturale eguaglianza, vennero espulsi senza trovare in chi restava alcuna difesa, alcuna attiva solidarietà; anzi, generando in più casi la vile soddisfazione di quelli che così poterono prenderne il posto. Lo fu dal punto di vista civile, perché si assistette a una tragedia individuale e collettiva che lacerava come mai era accaduto la nostra società, accettandone in silenzio le conseguenze, anzi teorizzandole e avallandone sul terreno del ridimensionamento “razziale” della stessa cittadinanza, senza vergognarsi di farle acquisire obbligatori connotati ariani. E qui viene il tradimento dello stesso diritto, giacché i nostri giuristi sapevano bene che quello che in inglese si chiamava rule of law e nelle lingue continentali Rechtsstaat o Stato di diritto è tale non quando si è governati da una qualunque legge, ma quando la legge, cioè il diritto, risponde ad alcuni ineludibili principi fondanti, a partire dall’eguaglianza. Sapevano perciò che quelle leggi consumavano una rottura insanabile con ciò che loro stessi avevano sempre letto nelle costituzioni del tempo ed anche nel nostro Statuto albertino, ben al di là delle lacerazioni già consumate dal regime fascista. “Questo è davvero troppo” era il minimo che tutti avrebbero dovuto dire. Ma lo dissero in pochi, i più tacquero, alcuni concorsero alla elaborazione e all’applicazione di quel troppo.
Poi vennero le deportazioni, le vite spezzate e i milioni di morti nei campi di concentramento nazisti.
Al sacrificio di tutti costoro, ai quali non cesseremo mai di essere grati, dobbiamo l’ingresso nelle Costituzioni del secondo dopoguerra della dignità, come tratto inviolabile della persona da riconoscere a ciascun essere umano; e quindi quella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, nella quale sta scritto che tutti siamo nati eguali in dignità e diritti. C’è questo nella rule of law, nello stato di diritto del nostro tempo. Ma stiamo attenti. Le società peggiorano, incattiviscono, dimenticano. Perché non si ritrovino giuristi (e non solo giuristi) come quelli di ottant’anni fa, ricordarli, e ricordare ciò che essi accettarono, è essenziale per non scivolare, ancora una volta, in un diritto che cancella il diritto.
C’è anche questo nelle pagine di Giorgio Sacerdoti. Ed anche e direi in primo luogo per questo gli siamo grati del volume che ci ha offerto.

Giuliano Amato

(Diritto ed ebraismo. Italia, Europa, Israele – Giorgio Sacerdoti, ed. Il Mulino)

(15 ottobre 2021)