Storie di Libia – Lois Gerbi
Lois, ebrea di Libia, nata a Tripoli nel 1950. Lois dedica questa intervista alla sua famiglia, e in particolare ai suoi genitori Rina (di famiglia Habib) e Zacar Gerbi, e alla sua bisnonna materna Nina (nata Labi e discendente della famiglia Montefiori) sposata Sutton, che morì nei campi in Europa poco dopo la liberazione. Il marito di Nina, Moshe Sutton, arrivò, come inviato dell’Alliance Francaise nei primi del Novecento dal Libano a Tripoli e divenne il direttore della Scuola francese.
Moshe Sutton chiese la mano della studentessa Nina Labi e la sposò nonostante la differenza d’età.
La loro casa divenne col tempo un salotto dove le persone di un certo livello sociale s’incontravano per parlare e discutere tanti argomenti all’ordine del giorno, un vero e proprio salotto parigino.
Il nonno materno d Lois, Fortunato Habib (padre di sua madre Rina) aveva una grande distilleria, era molto conosciuto e affermato e, come tale, negli anni Venti del secolo scorso partecipò ad un’assemblea, istituita su iniziativa di Meir Hasidof, il “salvatore delle terre”, con lo scopo di raccogliere denaro per acquistare dagli arabi terreni nell’allora Palestina. Partecipò all’acquisto di terreni vicino a Gerusalemme.
A questa stessa famiglia apparteneva anche il grande Rav Avraham Haviv (definito kabalista divino). Quando il rabbino mancò a Tripoli (28/05/1923) uscì, in Italia, un articolo in sua memoria.
La famiglia di Lois era abbastanza osservante e la sua casa accoglieva spesso amici e parenti. Il padre teneva moltissimo alla crescita culturale ed educativa dei figli.
Ogni fine settimana la famiglia andava al cinema ma dopo c’era sempre una seduta a tavola col padre, e i bambini venivano incoraggiati ad esprimere il loro parere su ciò che avevano visto nel film, le loro riflessioni e argomentazioni.
La sua famiglia era stata una della prime ad avere la televisione a Tripoli e spesso la sera s’invitavano gli amici a vedere programmi di tutti i generi.
Qualsiasi spettacolo offrisse la città la sua famiglia era sempre presente, così come alle attività promosse dai circoli; lezioni di pianoforte, attività sportive e lo studio del francese. Il Sabato tenevano tavole di discussioni familiari, attingendo ai libri per dimostrare la propria tesi o confutare quella dell’altro. Le conversazioni erano basate sul sionismo e la religione. Comunque la priorità per il padre di Lois era che i figli studiassero. Soffriva molto per non aver potuto studiare da giovane.
Per Lois il rapporto con la popolazione araba era basato sulla consapevolezza di essere ospiti del paese e non cittadini come gli altri e che gli arabi andassero temuti e bisognasse evitare di farli arrabbiare. Da piccola Lois aveva trovato un fagotto con delle banconote israeliane e la madre preoccupatissima le aveva bruciate nella stessa giornata in presenza di Lois che aveva al tempo forse due anni e mezzo. Sarebbe potuta succedere una tragedia se un arabo avesse scoperte le banconote. Un’altra volta era arrivata per posta una lettera con il nome Tel Aviv scritto nella prima riga, vicino alla data. Il padre si infuriò terribilmente, conscio del pericolo nel caso in cui arabi l’avessero aperte.
La paura degli arabi era sempre presente ma non li paralizzava. Il padre coltivava molte amicizie con personalità importanti ma si trattava sempre di amicizie non uguali a quelle con altri ebrei. Nel 1967, quando scoppiò il pogrom, Lois era con un gruppo in pellegrinaggio a Djerba. Il padre allarmato contattò un suo amico che viveva in Tunisia (era il Ministro dell’agricoltura nel paese) per farla mettere su un aereo per Roma. L’amico accompagnò Lois all’aeroporto ma alla fine dovette anche intervenire personalmente alla polizia di confine per farla imbarcare perché sorse un problema: trovarono nella sua borsetta cinque dollari. Grazie al suo intervento la lasciarono partire.
Lois arrivo all’aeroporto di Roma, senza visto d’entrata, senza nessuno all’aereoporto ad attenderla,e la polizia italiana rifiutò di farla entrare e alcuni tripolini le suggerirono di chiedere asilo politico, cosa di cui all’epoca Lois non conosceva nemmeno il significato. Dopo un po’ di discussioni, le venne in mente di chiamare lo zio che abitava a Roma e di cui ricordò miracolosamente anche il numero di telefono. Più volte lo chiamarono invano, poi finalmente lui rispose e si affrettò ad andare a prenderla. Il pellegrinaggio le aveva evitato gli orrori del pogrom.
La sua famiglia fu costretta a partire dopo minacce di morte. Il fratello di Lois (che non aveva ancora sette anni) aveva imparato l’arabo duranti i 36 giorni chiuso in casa e con questo riuscì ad intrattenere le guardie raccontando storielle, mentre portavano lui e i suoi fratelli all’aeroporto. I genitori di Lois arrivarono a Roma con le lacrime agli occhi per il dispiacere di essere stati scacciati e di aver perso tutto, la posizione sociale e il palazzo costruito dal padre stesso. Lois dice di aver rimosso la sofferenza di essere stata scacciata e di non avere rimpianti.
Lois crede che si debba insegnare che libertà e democrazia sono i valori più importanti e che bisogna imparare a risparmiare perché il futuro è incerto.
Lois preferisce tenere il cibo in frigo piuttosto che mangiarlo. Racconta di essere cresciuta con un forte sionismo e con la consapevolezza di essere ospite nel suo paese nativo perché solo in Israele, afferma, gli ebrei possono essere liberi e padroni. Lei vive a Gerusalemme e la sua famiglia in Israele e in Italia.
Lois racconta come il fatto di aver vissuto come cittadina dhimmi e di avere subito e assistito alle ingiustizie degli arabi verso gli ebrei l’abbia resa molto combattiva in merito ai diritti dei cittadini. Quando abitava nei dormitori degli studenti all’università di Gerusalemme, a un certo punto la direzione decise di separare gli studenti maschi e femmine. Lei ha lottato per godere del diritto di rimanere nell’alloggio che le avevano assegnato all’inizio dell’anno. Lois ha sempre lottato contro le ingiustizie anche se si trattavano di errori sulla bolletta del telefono.
Ritiene che sia una causa persa cercare di ottenere risarcimenti e inoltre non riesce a vedere lo scopo dato che gli anziani non ci sono più e la casuale vincita di questa lotta gioverebbe solo alle nuove generazioni, che sono all’oscuro sull’esistenza di questi beni. Lei lo ritiene assolutamente inutile. Se il risarcimento non andasse a chi ha subito l’ingiustizia, che senso avrebbe? Non vuole lottare per lasciare più denaro ai suoi figli e nipoti e non ha mai pensato ai soldi della famiglia.
Non ritiene opportune costruire monumenti perché è sicura che verrebbero oltraggiati, così come sinagoghe e cimiteri. Non ritiene sia il caso di causare al popolo ebraico altro male.
Per rispondere alla domanda su cosa possono insegnare gli ebrei di Libia, Lois racconta un aneddoto. La madre era in visita da lei in Israele. La figlia le chiese di farle la lista della spesa secondo quello che avrebbe voluto cucinato. La risposta della mamma la colpì molto: “Lois, non si fa così, dimmi cos’hai e ti dico cosa cucino”. Questa frase rimase impressa e lei usa lo stesso criterio nel suo lavoro di psicologa. Interrogata su come avrebbe condotto il suo lavoro in un carcere la sua risposta era stata difatti: “Lavorerò con quanto loro mi daranno” e “se giocano a carte giocherò a carte con loro”.
Lois crede che comune agli ebrei di Libia sia proprio la capacità di adattamento alla realtà che permette di esternare quanto di meglio hanno dentro.
Il concetto di resilienza che non porta a pensare a quello che non hai, bensì a fare il meglio con quello che hai.
Nell’intervista, a questo punto, cito il celebre Walt Disney: “Quello che fai con quello che hai è quello che conta”.
Le donne tripoline, ci dice inoltre, hanno un fortissimo attaccamento alla famiglia e ai propri figli. Quando un figlio lascia la casa per un viaggio la madre con un cucchiaio d’argento lo bagna con acqua e zucchero. Lo accompagna con dolcezza e ricchezza così da farlo andare in pace e farlo tornare in pace.
Lois non sarebbe voluta tornare a Tripoli. Essere cittadina dhimmi non era una scelta accettabile, i giovani via via sarebbero comunque usciti da quel paese dove gli ebrei non potevano frequentare l’università. Probabilmente per i vecchi è stata molto più duro accettare di essere scacciati e privati della loro posizione e delle loro ricchezze. La condizione dhimmi non era sopportabile da nessuno. Anche in Israele otta per i suoi diritti di cittadina con grande impegno. Lei è convinta che sia un atto dovuto non sopportare mai un’ingiustizia.
A 17 anni è arrivata a Roma, a 19 in Israele. Non si è mai sentita inferiore per la sua condizione e non ha mai ha permesso a nessuno di poterla ritenere tale. La consapevolezza di valere deve portarci a usare questo valore per il bene degli altri. È scritto in tante forme, ricorda, nella Bibbia.
Tutto quello che Dio ci dà, in effetti, è qualcosa che abbiamo ricevuto in custodia per aiutarlo e per continuare il Tikkun Olam.
Questa è la vera meta della nostra esistenza.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(18 ottobre 2021)