Dossier Afghanistan L’infinita fuga dalla patria distrutta
Per 20 anni Amin Nawabi (uno pseudonimo) non ha raccontato la sua storia: come è fuggito da bambino dall’Afghanistan dopo l’invasione sovietica e come ha affrontato il difficile viaggio che lo ha portato in Danimarca. Il prolungato silenzio si è interrotto quando ha scelto di rivelare la sua storia a un suo grande amico, il regista Jonas Pohr Rasmussen. Registratore acceso, per tre giorni Rasmussen ha ascoltato il suo amico parlargli dell’infanzia a Kabul negli anni Ottanta, del ritiro sovietico, dell’arrivo al potere dei talebani, della fuga verso Mosca fino all’insperato arrivo in Danimarca. Il regista ha preso nota di tutto per poi proporre a Nawabi di trasportare questa dolorosa storia personale sullo schermo, attraverso un film di animazione. E così è nato “Flee”, una pellicola che in questi mesi sta ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. Tra cui quello del Jerusalem Film Festival, dove la giuria ha voluto conferirgli in estate una menzione speciale. “Come in Valzer con Bashir, Rasmussen usa l’animazione per scavare nella memoria, ma il suo obiettivo è leggermente diverso. – spiega il critico cinematografico di Haaretz Nathaniel Shlomovich – Se Ari Folman cercava di scrostare gli strati per arrivare alla verità oggettiva, Rasmussen è impegnato in una ricerca psicologica e la verità che cerca è emotiva. Flee non è un ritratto dell’uomo, ma della sua anima. Il regista capisce anche che la memoria è fluida e sfuggente, e viene costantemente rimodellata nella coscienza. La rappresentazione animata di Amin riflette il movimento dinamico della memoria volatile”. Flee affronta il trauma dei rifugiati e il modo in cui ha formato e continua a formare la vita di Amin Nawabi. La scelta di usare un nome fittizio, riflette Shlomovich, è la prova di una paura che non lo lascia andare e gli impedisce di sentirsi a casa. “Lui e il regista riconoscono che l’emozione plasma la memoria, e non la oscurano”. Il film segue occasionalmente Nawabi durante la sua routine quotidiana, ma per la maggior parte dei segmenti delle interviste, si vede l’uomo supino, con la macchina da presa sospesa sopra di lui, come se si stesse documentando una sessione di una terapia a lungo attesa. Queste interviste sono animate in modo da nascondere il volto di Nawabi ma, come sottolinea Siddhant Adlakha dell’Observer, anche il più insignificante dei rumori è aumentato nel mix sonoro: come il respiro teso di Nawabi e il modo in cui si sposta in posizione quando si sdraia per parlare. Un lavoro che permette allo spettatore di entrare nell’intimità di questa difficile testimonianza in cui si alternano i ricordi felici e intensi dell’infanzia con la madre e i numerosi fratelli a quelli più sbiaditi e confusi della guerra. Poi anche questa parte di dolore prende forme più definite. Ci porta a Mosca, mostrando il volto crudele di trafficanti di uomini e autorità prive di compassione. Nel film è inserito anche materiale di archivio per ricordare alle persone che questa storia è legata a eventi storici. Per ricordare al pubblico che Flee, spiega il regista Rasmussen, è il documentario della vita di una persona reale. “Spero che le persone acquistino una prospettiva nuova e siano in grado di relazionarsi con le storie dei rifugiati” ha dichiarato all’Hollywood Reporter, riferendosi all’attuale crisi che ripresenta all’Europa la grande questione dell’accoglienza dei profughi. “Portano questi traumi con loro: non si vedono in superficie, ma ci sono e hanno un effetto su tutto ciò che fanno nella loro vita”.
Dossier Afghanistan, Pagine Ebraiche Ottobre 2021