Ticketless – Tre piani,
due storie, una riflessione

Israele visto dall’Italia, l’Italia vista da Israele. Un capitolo di storia della cultura che mi interessa da anni. Mi era capitato di occuparmene, e di scriverne qui, in occasione dell’uscita del volume di Mario Toscano (L’Italia racconta Israele, Viella, 2018). In questi ultimi mesi la intricata storia s’è arricchita di due capitoli che mi hanno costretto a riflettere.
Del primo, il caso-Eitan, mi manca il coraggio di parlare, tanto mi rattrista la vicenda di questo bambino e del penoso caso giudiziario che lo vede a sua insaputa coinvolto. Una vicenda che purtroppo smaschera antichi e irrisolti problemi nel rapporto non solo fra Italia e Israele, ma anche fra Israele e diaspora.
Mi appassiona di più il secondo caso-studio: la trasposizione cinematografica operata da Nanni Moretti sul romanzo Tre piani (Neri Pozza) di Eshkol Nevo. Dopo mesi e mesi di lontananza sono ritornato al cinema per vedere se e come la tranquilla palazzina di Tel Aviv potesse essere trasferita nei quartieri romani cari a un regista che seguo dagli esordi – non fosse altro che per la contiguità anagrafica. Devo confessare che la delusione è stata grande, il film è riuscito ad annebbiare se non a cancellare la profonda vitalità della trama di Nevo, i sottili rimandi all’inconscio, alle ferite che i protagonisti del romanzo infliggono agli altri, soprattutto, a se stessi. Complice la scelta degli attori: sempre gli stessi (Buy, Scamarcio, Rohrwacher), bloccati, specie i primi due, su un’immagine stereotipata di se stessi, una maschera triste, incupita da dialoghi davvero infelici e dolciastri.
L’invecchiamento è sempre un tema difficile da portare sullo schermo. Non è mai allegro prenderne atto, tanto più se si ha la stessa età del regista e ci si rispecchia in lui, come è capitato a me ogni volta che andavo a vedere un suo film: questa volta si percepisce il suo, ma anche il nostro invecchiare male. Il confronto con la vitalità della giovane letteratura israeliana è impietoso. E spiace, perché nel clima di boicottaggio in cui siamo immersi, con scrittori che non vogliono essere tradotti in ebraico, la scelta di Moretti appariva di per sé coraggiosa. Così, ieri sera, per farmi tornare il buonumore e non sentirmi afflitto dai mali della senilità, sono corso a vedere l’ultimo Martone, “Qui rido io”, film dedicato alla vita e all’opera del grande Scarpetta. Un tuffo nella gioiosa vitalità del teatro e della musica di Napoli, città che invece non invecchia mai nemmeno quando si trova a raccontare il teatro popolare e l’ultima fase di un suo autore geniale. Nel film si ricostruisce fra l’altro molto bene la famosa linea difensiva suggerita a Scarpetta da Benedetto Croce per sconfiggere la prosopopea di Gabriele D’Annunzio. Martone può competere con Nevo: chissà mai che un giorno non gli venga voglia di portare sullo schermo un altro suo romanzo.

Alberto Cavaglion