Alberto Zapponini, Giusto tra le Nazioni

Durante l’occupazione tedesca a Roma Alberto Zapponini nascose nei suoi uffici diversi membri della famiglia Fiorentini, contribuendo in modo determinante alla loro salvezza. Per questo lo Yad Vashem di Gerusalemme lo ha riconosciuto Giusto tra le Nazioni. Un eroismo ricordato nel corso della cerimonia organizzata al Centro Ebraico Il Pitigliani in cui il rappresentante dell’ambasciata d’Israele Uri Zirinski ha consegnato l’attestato ufficiale dello Yad Vashem ai discendenti della famiglia Zapponini. A aprire l’evento, i saluti della Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, del Consigliere del Pitigliani Massimo Bassan e del Consigliere della Comunità Ebraica di Roma Massimo Finzi. Ha poi portato la sua testimonianza Mirella Fiorentini Di Segni, classe 1927, storica insegnante alle scuole ebraiche romane, grazie alla quale è stato possibile attribuire a Zapponini (nell’immagine), seppur postumo, il titolo di Giusto.
Sono i giorni drammatici dopo l’8 settembre 1943: la Comunità ebraica di Roma, pesantemente colpita da anni di leggi razziali, si trova ora i nazisti in casa. Quasi subito i tedeschi mettono in atto l’inganno dei 50 chili d’oro, che la Comunità raccoglie disperatamente e consegna puntualmente, pur di avere la salva la vita. Una speranza vana: il 16 ottobre 1943 sarebbe avvenuta la più grande retata di ebrei in Italia di quegli anni drammatici.
Alcuni giorni prima della razzia, Silvio Fiorentini, sposato con Ida Della Seta e padre di due ragazzi, Mirella e Fausto, comprende l’imminenza del pericolo e decide di lasciare l’appartamento in cui viveva con la famiglia. Troverà ospitalità presso gli uffici della Guida Monaci, “Guida scientifica artistica e commerciale della città di Roma” diretta allora da Alberto Zapponini, per il quale aveva lavorato anni prima. Con Zapponini era nato un rapporto di stima e amicizia, e proprio al suo vecchio datore di lavoro Fiorentini chiede aiuto per sfuggire ai tedeschi.

Zapponini con grande coraggio e generosità mette a disposizione due stanze nei suoi uffici, dove tutta la famiglia Fiorentini, inclusa una zia, Ada, che viveva con loro, rimangono nascosti per mesi. Da sottolineare come nell’altra ala del grande appartamento-ufficio in via Crispi (nell’immagine), per tutti quei mesi gli impiegati continuarono a lavorare regolarmente, e pur al corrente della presenza di una famiglia ebraica, non li tradirono e anzi si comportarono con umanità.
Per decenni questa storia di famiglia era rimasta soltanto una narrazione privata, anche perché con la scomparsa di Zapponini e poi di Silvio Fiorentini, le due famiglie avevano perso i contatti.
Ma l’impegno e la volontà di Mirella, mamma della collega Piera Di Segni, autrice di Sorgente di Vita, oltre alla sopraggiunta facilità di rintracciare le persone nell’epoca di Facebook e dei social network, hanno oggi permesso di ricostruire questa storia di amicizia e di salvezza, riconoscendo ad Alberto Zapponini il suo grande merito.

“Tranne mio fratello, che si trasferì all’ospedale Fatebenefratelli, dove vennero nascosti e salvati diversi ebrei, siamo rimasti in quell’appartamento fino alla liberazione di Roma, nel giugno del ’44”, ha detto Mirella Fiorentini. “Noi dobbiamo avere una memoria grata nei confronti di Alberto Zapponini, che ci ha permesso di vivere lì tranquillamente per nove mesi. Ho voluto portare avanti questa iniziativa di onorificenza in sua memoria, per ricordare una persona che, senza alcun interesse personale, ci ha salvato.”

“Il merito della salvezza della famiglia Fiorentini (nell’immagine) va anche ai dipendenti della Guida Monaci, che lavoravano di giorno negli stessi spazi dove la notte veniva protetta la famiglia”, ha detto il pronipote (e omonimo del suo bisnonno) Alberto Zapponini. “La paura serpeggiava tra queste persone, madri e padri di famiglia, ma vinse la compattezza e la condivisione della scelta fatta. Dunque, se di atto eroico si può parlare, questo va condiviso con tutta l’azienda.”
“E’ incredibile e straordinario come ancora oggi nella nostra famiglia siano ancora vivi i ricordi di bisnonno Alberto a 140 anni dalla sua nascita e di nonno Alberto Giorgio a 18 anni dalla sua scomparsa”, ha detto Andrea Zapponini, anch’egli pronipote di Alberto. “E anche per questo desidero ringraziare a nome di tutti noi la professoressa Fiorentini, per aver voluto far incrociare nuovamente le strade delle nostre famiglie, per aver promosso e tenacemente seguito l’iter per il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni, e per averci fatto conoscere e vivere nostro bisnonno attraverso i suoi racconti e aneddoti del suo vissuto in un periodo indimenticabile della sua vita.”
L’incontro, al quale hanno partecipato i discendenti delle due famiglie, con nipoti e pronipoti, è stato un’occasione per incontrarsi al completo, e per scambiarsi aneddoti su una storia di amicizia e lealtà in tempo di guerra, per fortuna a lieto fine.

Marco Di Porto

Di seguito le testimonianze di Mirella Fiorentini, grazie a cui lo Yad Vashem ha riconosciuto Giusto tra le Nazioni Alberto Zapponini, e quella del nipote di quest’ultimo, Stefano Zapponini.

Mi chiamo Mirella Fiorentini, vedova Di Segni, sono nata a Roma il 2 settembre 1927 da Silvio Fiorentini e Ida Della Seta. Fin dalla nascita sono sempre vissuta a Roma.
Ho frequentato le 5 classi delle scuole elementari presso la scuola pubblica Umberto I. Mio padre, Silvio Fiorentini, laureatosi in Ingegneria al Politecnico di Torino, dopo svariate attività lavorative, negli anni ’20 divenne direttore del Molino Cerere a Roma. Negli anni ‘30 fu impiegato presso la “Guida Monaci”, “Guida scientifica artistica e commerciale della città di Roma”, allora diretta dal Commendator Alberto Zapponini, con il quale strinse un forte legame di stima e di amicizia che perdurò anche negli anni successivi. In seguito, sempre negli anni ’30, lavorò presso la Confederazione Nazionale Fascista Mugnai, Pastai, Risieri e Trebbiatori (ente parastatale).
Nell’autunno del 1938, in seguito all’emanazione delle leggi fasciste antiebraiche, mio padre venne licenziato dalla suddetta Confederazione e dovette ingegnarsi a svolgere autonomamente lavori inerenti le sue competenze.
In conseguenza delle stesse leggi io stessa, pur avendo superato l’esame di ammissione, non potei iscrivermi al Liceo–ginnasio statale G. Mamiani e dall’autunno 1938 fino a giugno 1943 ho frequentato le scuole ebraiche istituite dalla Comunità Ebraica per i ragazzi espulsi dalle scuole pubbliche. Dato che si pagava una retta, i miei genitori dovettero affrontare un pesante sacrificio economico.
Nel settembre 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre e la conseguente occupazione tedesca, in seguito alla richiesta agli ebrei romani di 50 kg di oro da parte dei nazisti (che furono poi consegnati), mio padre capì che eravamo in pericolo e decise di andare via dalla casa di Via Avezzana, nel quartiere Prati, ritenendo opportuno trovare un nascondiglio. Mio padre si rivolse al suo amico Alberto Zapponini che con grande generosità mise a nostra disposizione due stanze all’interno degli uffici della “Guida Monaci” in Via Francesco Crispi, 10. Nei mesi successivi ci procurammo dei falsi documenti d’identità. Mio padre, mia madre, mio fratello Fausto, la sorella di mio padre, Ada, che viveva con noi, ed io ci sistemammo quindi nelle due stanze. Approntammo dei letti di fortuna fatti con vecchie casse di legno piene di carte sulle quali erano appoggiati i lunghi sportelli delle finestre. Sugli sportelli di ciascun letto c’era un materasso a una piazza. In un letto dormivano i miei genitori, nell’altro mia zia ed io. Mio fratello dormiva nell’altra stanza che fungeva da soggiorno; lì avevamo un piccolo fornello elettrico. Quando c’era la corrente elettrica, che spesso mancava, mia madre cucinava quel poco che passavano le razioni. Il cibo era sempre scarso, e soffrivamo molto la fame.
L’ufficio era aperto solo di mattina e aveva una pianta a “L”. Sul lato lungo della “L” c’era un corridoio sul quale si aprivano le stanze degli impiegati; in fondo al corridoio c’era l’unico bagno dell’appartamento. Noi vivevamo nel lato corto della “L”, separato da una porta, ma usufruivamo del bagno. Pertanto ogni mattina dovevamo usarlo e metterlo in ordine, senza lasciare nostre tracce, prima che aprisse l’ufficio e arrivassero gli impiegati, e comunque usarlo quando loro erano assenti. Rischiavamo di essere scoperti e denunciati ma durante tutto il periodo, oltre alla protezione del Commendator Zapponini che aveva rapporti quotidiani con mio padre, anche gli impiegati e il portiere dello stabile mantennero il segreto sulle nostre identità nonostante i gravi rischi che correvano proteggendo una famiglia di ebrei. Da due impiegate in particolare ricevemmo gesti di solidarietà.
Vivevamo praticamente isolati, con scarsissimi contatti con i parenti, uscivamo solo per necessità, rischiando di essere arrestati durante rastrellamenti o per spiate.
Il 16 ottobre, dopo aver saputo della razzia nel ghetto, andammo a cercare i nonni Della Seta che abitavano in Via Arenula: la portiera ci informò che erano stati presi dai tedeschi. Quello stesso giorno furono presi altri sette membri della famiglia Fiorentini. Di loro non sapemmo più nulla, e vivemmo nell’angoscia e nella preoccupazione per la loro sorte.
Dopo qualche mese mia zia Ada andò via dal rifugio della “Guida Monaci” e trovò ospitalità in casa di amici cattolici.
Nei primi mesi del ’44 mio fratello trovò un’altra sistemazione, ritenuta meno rischiosa per un ragazzo come lui, nell’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina.
Il momento più drammatico fu il 23 marzo 1944, giorno dell’attentato a via Rasella da parte di un gruppo partigiano. Io ero andata a portare il pranzo a mio fratello all’ospedale sulla via del ritorno sentii un forte boato. Arrivata a piazza Fontana di Trevi, nei pressi del nostro rifugio, seppi che c’era stato un attentato a un drappello di soldati tedeschi. Via del Tritone era deserta ma le strade di accesso erano presidiate da soldati tedeschi armati. Con grande incoscienza attraversai di corsa via del Tritone e per strade secondarie riuscii a raggiungere Via Francesco Crispi senza essere fermata. Trovai mia madre in preda alla paura e preoccupazione.
I miei genitori ed io rimanemmo negli uffici della Guida Monaci fino a dopo la liberazione di Roma nel giugno 1944. Il rapporto di amicizia tra la mia famiglia e quella del Commendator Zapponini è proseguito negli anni successivi.
Nei suoi confronti la mia famiglia ha sempre provato un sentimento di riconoscenza: il Commendator Zappinini ci ha aiutati perchè era molto generoso di natura. So che era molto religioso e faceva opere di beneficenza, in modo anonimo. Dopo la morte del Commendator Zapponini non avevo più avuto rapporti con la sua famiglia. Finora non avevo fatto una richiesta di riconoscimento come Giusto tra le Nazioni perché non sapevo come rintracciare i discendenti.
Recentemente, grazie all’aiuto di mo genero, sono riuscita a rintracciarli su Facebook. Li ho cercati per adempiere a un mio intimo sentimento di riconoscenza verso il loro nonno e bisnonno, dato che sono l’unica ancora in vita tra le persone da lui salvate. Per tale ragione vorrei che il Commendator Alberto Zapponini venisse riconosciuto come Giusto tra le Nazioni.

La testimonianza di Stefano Zapponini

Il considerevole lasso di tempo che divide l’epoca dei fatti dai nostri giorni, rende la ricerca delle richieste testimonianze dirette, molto complessa.
Per questo, dei fatti in questione è possibile oggi riportare solo quanto è alla mia memoria e a quella dei miei fratelli, Giancarlo, Alessandro e Gianalberto: un condensato di frammenti di ricordi, raccolti nel tempo.
D’altra parte è anche un fatto che la mia famiglia non abbia mai testimoniato, raccolto documentazione e men che meno reso pubblico, questo o altri episodi grandi o piccoli che fossero, di rilevanza umana o sociale, perchè fanno parte del patrimonio di attenzioni e sensibilità gelosamente custodito, protetto e rispettato nel loro valore.
Era ed è questo il nostro stile, la nostra educazione: riserbo assoluto nelle vicende più intime.
Alberto Zapponini, nostro nonno, mi risulta avesse una grande carica di attenzione, sensibilità e generosità nei contronti dei meno fortunati.
Nato in una famiglia umile e molto numerosa, fu capace di una straordinaria evoluzione economica e sociale grazie all’esemplare impegno in famiglia e nel lavoro con sacrificio quasi totalizzante; per dare solo un’idea, mi fu riferito che pur di riuscire a coronare il progetto di realizzare una piccola catena di negozi, per anni trascorse le notti a rotazione in ciascuno di essi, per effettuare personalmente i controlli del magazzino e della contabilità. Dormendo su una brandina.
Sacrificio e dedizione certamente, ma lo caratterizzò anche una grande attenzione agli sprechi.
Personalmente lo vidi riutilizzare il retro delle buste della posta che riceveva, per farne carta da appunti…
Tornando ai fatti, posso dire che ne venni a conoscenza in coincidenza con l’inizio della mia frequentazione in Guida Monaci, che mi portò a stabilire un contatto anche confidenziale con i Collaboratori; per quanto vivessi la fase della “gavetta”, i primi che si aprirono con me furono i Collaboratori che avevano anche un legame di amicizia con mio padre fin dall’epoca della guerra.
Furono questi (come Raffaello Beccucci e Filippo Roviglioni) che mi raccontarono varie storie ed aneddoti con nonno Alberto protagonista.
Certamente mi riferirono che l’inziativa di ospitare la famiglia Fiorentini in azienda (a Roma in Via Francesco Crispi, 10), fu di nonno.
Ma altrettanto per certo non va nel modo più assoluto sottovalutato (o peggio dimenticato) che il rischio fu condiviso con tutti i Collaboratori che allora lavoravano negli stessi spazi, dove nella notte veniva protetta la famiglia Fiorentini.
Non riesco ad immaginare il timore e la paura di queste persone, mamme e papà a loro volta… ma so per certo che su di esse vinsero la granitica compattezza e la piena condivisione della scelta fatta!
Dunque se in base ai fatti, un merito dovesse esistere, se di “atto eroico” si volesse parlare, questi andrebbero addotti a tutta la comunità aziendale.
Comunità che, come è nello spirito autentico del fare impresa, condivide e fa suo il progetto di una persona o di una famiglia, che si impegna a farlo crescere nel benessere sociale, prima che economico.
Così è stato allora – con naturalezza e spontaneità – così è stato negli anni della ricostruzione nel dopoguerra ed in quelli successivi: l’azienda cresceva, generava benessere, per tutti.
C’era spazio nella mente prima che nelle tasche, per gesti di generosità.
Varie le tracce di “prestiti” aziendali ai Collaboratori per l’acquisto della casa, degli arredi ed altro. Uno spirito sano, attento ai problemi delle persone che vivevano accanto a te e non solo.
Certamente uno spirito alimentato dal valore della memoria di un’azienda che arrivò alla famiglia Zapponini per un atto di donazione del fondatore – Tito Monaci – al suo fedele collaboratore Arturo Zapponini, che fin dall’inizio e per trent’anni lo affiancò nell’impresa, fino alla morte.
Un atto che volle essere sì espressione della massima riconoscenza personale e professionale, ma pur sempre un atto di straordinaria generosità che ci accompagna ancora e ci detta la via giusta.
Questo modo di essere e di vivere l’azienda non è mutato: ancora oggi che l’Azienda ha sofferto e soffre pesantemente il cambiamento epocale in atto, lo spirito originale governa le relazioni tra le persone in azienda. La nostra comunità lavora, vive, soffre, combatte (molto), gioisce (meno) con il medesimo, autentico e naturale senso di solidarietà.