Cinema – Lo speciale
Identità, Memoria, Israele:
i film da non perdere

Film di enorme interesse stanno segnando la scena in queste settimane, nei festival e nelle sale.
Un nuovo appuntamento con lo speciale di Pagine Ebraiche sulle pellicole da non perdere intrecciate ai temi dell’identità ebraica, della Memoria, di Israele.

Una casa, da Tel Aviv a Roma

Un’elegante palazzina borghese a Roma, tre famiglie e i loro destini. Tre piani, il nuovo film di Nanni Moretti, s’inoltra in questo piccolo universo svelando il territorio esplosivo delle relazioni che legano genitori, fratelli e vicini. Basato sull’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (2017), il racconto si apre con un drammatico incidente di macchina. Ubriaco, Andrea investe un pedone e lo uccide devastando l’appartamento dei vicini al pianoterra. Benché rifiuti di esprimere qualsiasi rimorso, la madre (Margherita Buy) lo difende con il padre magistrato (interpretato dallo stesso Moretti). Intanto i vicini (Riccardo Scamarcio e Elena Lietti) sono alle prese con una bimba piccola, l’anziana coppia di fronte li aiuta mentre una giovane madre (Alba Rohrwacher) patisce le assenze del marito. Nessuno è ciò che sembra e ciascuno è a modo suo infelice. Unico film italiano in concorso al festival di Cannes, Tre piani è il primo lavoro di Nanni Moretti a non essere basato su un suo soggetto e il cambio di passo si avverte. È un film duro, doloroso e chi ha letto il romanzo di Nevo, ambientato a Tel Aviv, troverà un ulteriore spunto di interesse nell’adattamento allo scenario italiano. Tornato da Cannes a mani vuote, il regista si è sfogato su sui social. “Invecchiare di colpo. Succede. Soprattutto se un tuo film partecipa a un festival. E non vince. E invece vince un altro film, in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac”. La parola è passata alle sale cinematografiche dove ha scelto di uscire rifiutando, almeno per ora, la distribuzione via streaming.

Scene da un massacro

Uno dei lavori più sconvolgenti presentati quest’anno a Cannes si basa interamente su filmati e materiali d’archivio. Intitolato con semplicità Babi Yar. The context, il film ricrea gli eventi che nel settembre 1941 conducono al massacro di 33 mila 771 ebrei nella Kiev occupata dai nazisti e si sofferma su ciò che accade dopo la tragedia. “Come altri crimini dell’Olocausto – spiega il regista ucraino Sergej Loznitsa – la tragedia di Babi Yar è quasi priva di un’autentica rappresentazione visuale. Le autorità naziste avevano bandito dai luoghi delle esecuzioni le macchine fotografiche e da presa. In questo caso è però possibile ricostruire il contesto storico attraverso girati d’archivio, documentando gli anni dell’occupazione nazista in Ucraina”. Loznitsa non è nuovo all’indagine storica. Con un metodo analogo aveva portato sullo schermo i solenni funerali di Stalin nel marzo 1953, in State funeral (2019), mentre in The Trial (2018) aveva ricostruito il processo in cui nel 1930 un gruppo di economisti e ingegneri erano stati falsamente accusati di complottare contro il governo sovietico. In Babi Jar il soggetto s’impone, in presa diretta e senza scorciatoie, in tutta l’immensità del suo orrore e la durata (120 minuti) non fa che amplificare l’effetto. L’obiettivo del regista è immergere lo spettatore nell’atmosfera del tempo e il risultato toglie il fiato.
Premiato al Jerusalem Film Festival come migliore documentario straniero, il film nasce da un’esperienza profondamente personale. Loznitsa è cresciuto nella Kiev degli anni Settanta, non
lontano dai luoghi dove l’eccidio si è consumato. Da bambino ha giocato nel burrone del
massacro, senza avere idea di cosa lì fosse accaduto. “Trent’anni fa – spiega – non era qualcosa che si insegnava a scuola. L’Olocausto era una sorta di tabù nell’Unione Sovietica. Solo più tardi, da studente, ne sono venuto a conoscenza e ho sentito che era mio dovere fare un film su questa tragedia”. Il film ha richiesto anni di preparazione per raccogliere i materiali che provengono da archivi in Russia, Germania e Ucraina.

Tre minuti indimenticabili

Tre minuti sottratti al crudele scorrere del tempo. Frammenti di sorrisi, saluti, vita. Sono stati girati da David Kurtz nel 1938 in una cittadina ebraica polacca. È un filmato amatoriale, per lo più a colori. Le uniche immagini in movimento che restano degli abitanti di Nasielsk. Quasi tutte le persone che vediamo sono state uccise nella Shoah. Quello squarcio sul passato è ora al centro di un film intitolato Three minutes – A Lengthening che dilata e approfondisce il respiro di quei frammenti. Finché lo guardiamo la fine è rimandata, sembra dire la regista Bianca Stigter. Finché le immagini continuano a scorrere, la storia non è finita. A rendere eccezionali quei tre minuti è il fatto che Nasielsk è una cittadina fuori dalle rotte turistica. David Kurtz è nato qui ed è emigrato bambino negli Stati Uniti. Nel 1938 torna in visita. Per l’occasione compra una cinepresa 16mm, che all’epoca è una rarità, soprattutto in una realtà così appartata. Ottant’anni dopo, quelle immagini sono esaminate portando alla luce le vicende che contiene. Fra le voci che contribuiscono, Glenn Kurtz, nipote di David Kurtz e Maurice Chandler, che appare nel film da ragazzo e condivide i suoi ricordi. La voce narrante è dell’attrice Helena Bonham Carter.

“Fenomeni da circo” nella Roma del ’43

Roma, 1943. Il Circo Mezzapiotta si esibisce per l’ultima volta prima dell’arrivo dei nazisti. Fra gli applausi del pubblico, i “fenomeni da baraccone” danno spettacolo. L’uomo lupo coperto di peli dalla testa ai piedi (Claudio Santamaria) esibisce la sua straordinaria forza. Mario (Giancarlo Martini), gioca al fachiro con i chiodi, l’albino Cencio (Piero Castellitto) incanta gli insetti e la bella Matilde (Aurora Giovinazzo) produce energia elettrica – capacità che la rende inavvicinabile. Freaks out, l’ultimo film di Gabriele Mainetti, porta in scena in chiave fantastica la Roma caotica dell’occupazione. Accolto dagli applausi alla Mostra del cinema di Venezia, dove si è aggiudicato il Leoncino d’oro assegnato da una giuria di giovani, ruota attorno al tema delicato dell’essere diversi. Quando il proprietario Israel (Giorgio Tirabassi) scompare in modo misterioso, i suoi “fenomeni da circo” si ritrovano soli e privi della guida di chi fino allora hanno considerato un padre. Uniti dalla necessità di sopravvivere, cercano una via di fuga nella città occupata. E mentre cercano di salvare Israel dalla deportazione, scoprono che nella loro diversità si celano inaspettati e straordinari poteri. Secondo lungometraggio di Mainetti dopo lo strepitoso successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film sfodera una vena visionaria che a molti critici ha ricordato Fellini. Le citazioni cinematografiche si rincorrono esplicite, da Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino al Mago di Oz, da Spielberg alla disperazione delle donne che rincorrono i camion militari come Anna Magnani in Roma città aperta.

Il lungo magnifico viaggio di Hallelujah

Quando nel 1984 Leonard Cohen presentò l’album contenente Hallelujah a Columbia records, la risposta fu un secco rifiuto. Troppo complicato, gli dissero – troppo poco popolare. L’album non uscì mai negli Stati Uniti. È il genere di abbaglio destinato a scolpirsi in caratteri di fuoco nella storia. Non solo Hallelujah – uno dei testi più complessi di Cohen, che a ognuno dei versi avrebbe dedicato oltre duecento versioni – è finita in vetta alle classifiche diventando un inno di fama internazionale ma negli anni ha acquisito una vita tutta sua con interpreti che spaziano da Bob Dylan a Jeff Buckley a Brandi Carlile. Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song, il documentario di Daniel Geller e Dayna Goldfine, indaga sul mondo del cantautore attraverso il filtro di Hallelujah a partire dal percorso drammatico del pezzo. Approvato per la produzione da Leonard Cohen poco prima del suo ottantesimo compleanno, il film ricompone un vasto repertorio di materiale d’archivio inedito proveniente dal Cohen Trust, inclusi gli appunti personali, i giornali e le fotografie di Cohen. Vi sono filmati di sue esibizioni e preziose registrazioni audio e interviste. I documenti e le testimonianze delle sue guide spirituali, di amici, fan, collaboratori di vecchia data e avversari intellettuali ci guidano nel mondo di Leonard Cohen. Mentre scrive e riscrive i versi di Hallelujah, nel tentativo disperato di capire il senso del suo stare al mondo, ritroviamo la sua costante attenzione alla condizione umana, il suo ebraismo, la sua visione delle vita e delle cose – l’universo meraviglioso e disperato che ha a lungo ha scandito il nostro tempo.

Anatomia di un matrimonio

Quando nella primavera del 1973 Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman debutta alla televisione svedese è subito un successo strepitoso. Girata quasi per un intero sull’isola svedese di Fårö, la serie – che nell’adattamento per il cinema conquisterà le platee internazionali – si inoltra nella vita di una coppia colta e sofisticata tra infedeltà, separazioni e riconciliazioni. A riportare per la prima volta quel lavoro sullo schermo è il regista israeliano Hagai Levi, che lo trasporta a Boston con Oscar Isaacs e Jessica Chastain nei ruoli che erano stati di Erland Josephson e Liv Ullmann. Già autore di successi strepitosi come The Affair e BeTipul/In Treatment, Levi filtra Bergman in chiave contemporanea. Nella sua versione in cinque puntate, da poco su HBO, il protagonista maschile Jonathan, che nell’originale era un maschilista vecchio stampo, diventa un professore che cerca di riconnettersi all’ebraismo mentre ad avere una relazione extraconiugale è Marianne, una donna in carriera. Il regista racconta di essere ossessionato da Bergman dalla prima volta in cui a 18 anni ha visto il film, quando nel suo kibbutz si occupava delle proiezioni. “Ricordo di aver pensato: questa è arte!”. Ricrearlo cinquant’anni dopo, spiega, ha significato fare i conti con valori diversi oltre che con gli spettri della pandemia.

Daniela Gross – Pagine Ebraiche ottobre 2021