Periscopio – Selva oscura

Abbiamo affrontato, nelle ultime puntate della nostra investigazione sulla visione dantesca degli ebrei e dell’ebraismo, il problema della rappresentazione, nella Commedia, della distruzione di Gerusalemme come compimento di una “vendetta de la vendetta del peccato antico” (Par. VI. 92-93), ossia dell’abbattimento del Tempio come punizione per il cosiddetto ‘deicidio’, a sua volta necessaria riparazione del peccato originale.
Abbiamo notato come il poeta, facendo propria tale concezione, non inventi nulla sul piano teologico, ma si limiti a riecheggiare quella che era una comune concezione del suo tempo. Anzi, abbiamo avuto modo di notare come Dante, nella rievocazione della perdita della patria e dell’esilio del popolo ebraico, assuma un atteggiamento che appare freddo e distaccato, prendendo atto di quello che gli appare un mero dato di fatto storico e geografico, senza nessun apparente compiacimento della dura sorte spettata al popolo d’Israele per la sua presunta responsabilità collettiva (così diffusa e radicata, invece, nel pensiero di tanti Padri della Chiesa, e anche di tanti pensatori del Medio Evo e di età successive, fino a epoche recentissime alla nostra).
Anche se quella di Dante non è una novità sul piano teologico, appare comunque interessante esaminare in modo più attento il modo in cui egli espone questo concetto nel poema, dal momento che tale rappresentazione pare rivelatrice non solo del modo di pensare e di argomentare del poeta, ma anche di quelli che sembrano essere dei suoi profondi dubbi, innanzi ai quali egli sembra – febbrilmente, dolorosamente – cercare delle risposte: le quali, però, non paiono risultare – ai suoi occhi – pienamente appaganti, in grado di placare le sue incertezze e inquietudini.
La puntuale, minuziosa e geometrica visione teologica dantesca è comunemente interpretata come un castello di certezze e indubitabili verità di fede. Ma non sempre un tale approccio risulta pienamente soddisfacente, in quanto quella di Dante è soprattutto una ricerca, uno sforzo, e dai suoi versi emerge sovente un senso di inappagamento, di ansia, di perdurante sofferenza. In genere si vede nella “selva oscura” dalla quale egli fugge un’allegoria del peccato, che allontana dalla “diritta via”, perché era soprattutto attraverso questo concetto, al suo tempo, che si indicava il male. Ma l’idea di peccato, che, nella Bibbia, è alla radice della storia dell’umanità, non è sempre stata presente in tutte le culture. Le antiche religioni politeiste, per esempio, non la conoscevano, e vedevano il male solo nelle mancanze di tipo rituale, nelle offese ai singoli dèi atte a scatenare la loro collera. E non si può certo dire che tale idea incuta molto timore negli uomini contemporanei, almeno nel cosiddetto Occidente: dove, oggi, probabilmente, la selva oscura da cui uscire è soprattutto la mancanza di senso, il nichilismo, la depressione. Nel Medio Evo la parola ‘depressione’ non si usava, ma siamo con questo sicuri che ciò a cui oggi, con essa, ci si riferisce, non esistesse? Come annota Tolstoj, le felicità si somigliano, ma le infelicità sono sempre diverse. Non solo ogni epoca, ma anche ogni singolo uomo ha la sua particolare selva oscura, come ci ricorda Nicole Krauss, nel suo labirintico romanzo “Forest Dark”.
Quel che è certo è che quello di Dante è un viaggio, un percorso. Paragonabile, per certi versi, a quello di Mosè. A differenza del profeta, il poeta non era fisicamente alla guida in un popolo, ma anch’egli si considerava simbolicamente tale, non intendeva certo viaggiare da solo. E uscire a “riveder le stelle” resta per lui un obiettivo, un traguardo. Esso è raggiunto sul piano letterario, ma non può esserlo sul piano umano, perché a nessun uomo è dato di placare quello che, nella poesia di Montale, è chiamato il “mal di vivere”. Neanche a un genio eccelso. Anzi, soprattutto a un genio eccelso. E, ricordiamo, neanche a “Moïsè legista e ubidiente” (Inf. IV.57) fu dato di entrare nella Terra Promessa. Credo che sia semplicistico considerare il finale della Commedia un “Happy End”, perché gli orrori dell’Inferno non saranno mai dimenticati. E il viaggio, certamente, proseguirà, così come prosegue, dopo l’approdo a Itaca, quello di Ulisse. Nonostante i sei secoli che li separano, credo che Dante e Kafka (il protagonista nascosto di Forest Dark) siano meno lontani di quanto si pensi, in quanto nessuno, come loro, ha saputo dare forma all’incubo. E Primo Levi, come abbiamo avuto modo di notare, ha saputo rivelare con parole insuperabili come la lingua della Commedia possa permettere di accostarsi all’indicibile buio della Shoah.
L’atteggiamento di Dante nei confronti del destino del popolo ebraico mi sembra rivelatore di questo suo stato d’animo dubbioso e lacerato, di un senso di smarrimento derivante dalla difficoltà di trovare spiegazioni a problemi che continuano, nonostante ogni impegno sul piano della logica e della razionalità – sia pure inquadrate in una cornice teologica -, ad apparirgli ‘oscuri’, come la selva.
Per meglio comprendere il senso, emergente dal poema, della “vendetta de la vendetta”, e i dubbi a esso collegati, credo che sia opportuno affrontare brevemente tre importanti questioni, distinte ma collegate: la concezione dantesca della giustizia, e il suo collegamento con quella ebraica, almeno così come gli doveva apparire; la sua posizione di fronte all’idea di una punizione collettiva; il suo atteggiamento – non tanto sul piano della fede, ma soprattutto su quello emotivo, psicologico – nei confronti del concetto di mistero.
Cercheremo di farlo nei prossimi tre contributi.

Francesco Lucrezi