Machshevet Israel
I doveri dei cuori

Della vita di Bachyà Ibn Paquda, che fu filosofo-poeta neoplatonico e dayan ossia giudice in un bet din nella città di Saragozza (ma qualcuno dice a Cordova), si sa ben poco. Si ignorano persino le date di nascita e di morte. C’è chi lo vede attivo nella prima metà del XI secolo (Kaufmann Kohler, che ne descrisse la ‘teologia’) e chi verso la fine di quel secolo (Salomon Munk). Di conseguenza ignoriamo quando sia stato composto il suo capolavoro etico, scritto in arabo, che però ebbe grande diffusione nella traduzione in ebraico, compiuta dai provenzali Tibboniti nel 1160 circa con il titolo Chovot ha-levavot. Nel 1983 rav Sergio Sierra lo tradusse dall’ebraico in italiano: I doveri dei cuori (ed. Carucci, oggi introvabile); qualche anno dopo apparve un’altra versione italiana, tradotta dal francese, in quanto nel 1950 André Chouraqui l’aveva resa in quella lingua direttamente dall’arabo, con il titolo I doveri del cuore (ed. Paoline, a cura di Gianfranco Ravasi, 1988). ‘Cuore’ al singolare fu una scelta di Chouraqui.
Nel XIX secolo il testo venne additato dal movimento del musar come un classico per la formazione interiore del buon ebreo, per sviluppare l’introspezione e orientare all’elevazione spirituale. Come tale venne studiato in molte yeshivot, specie lituane. L’opera può infatti essere considerata come un esempio di mistica ebraica non qabbalistica ma piuttosto filosofica; infatti gli studiosi vi hanno visto un influsso ora della religiosità islamica poi confluita nel sufismo, ora più esplicitamente del neo-platonismo ebraico (forse di Shlomò Ibn Gabirol, a sua volta poeta e filosofo sefardita). Il linguaggio e i concetti che vi compaiono sono molto simili a quegli insegnamenti religioso-filosofici paralleli, e non di meno fanno eco alla grande tradizione ebraica sapienziale dei Ketubim, specie ai Proverbi (ampiamento citato da Bachya Ibn Paquda). È in questa tradizione che troviamo una preoccupazione per la scienza interiore, quasi un’attenzione psicologica finalizzata a rendere possibile una vita virtuosa, spiritualmente più autentica. Poco soprende che questo non facile testo medievale sia stato adottato nei curricula delle yeshivot che avevano abbracciato il musar allo scopo di integrare l’approccio logico-razionale con una maggior cura dell’anima e del carattere personale.
Il piano dell’opera – suddivisa in ‘portici’ come le coeve opere islamiche di ascesi – è sufficientemente esplicativo del suo scopo: a partire dalla contemplazione dell’unità divina e della provvidenza celeste nella molteplicità delle creature, l’anima umana si impegna nella sottomissione e nell’abbandono a Iddio benedetto, nonché nella purificazione dei propri atti e delle loro intenzioni; si esercita altresì nella virtù dell’umiltà, qui intesa come controllo di sé e benevolenza, e nella penitenza attraverso l’esame di coscienza (cheshbon ha-nefesh), giungendo così all’ascesi e al puro amore per il Creatore. Il registro filosofico di quest’ascesa è chiarito nel preambolo, che apre e insiste sul valore della conoscenza: “Il più grande beneficio che Iddio abbia concesso agli uomini suoi servitori è, dopo l’esistenza, l’aver dato loro la conoscenza. Vita dello spirito e luce dell’intelligenza, essa li porta a soddisfare il Signore e li salva dalla sua collera in questo mondo e nell’altro, come sta scritto [Mishlè 2,6]: ‘È il Signore che dà la sapienza; è dalla Sua bocca che promanano il sapere e l’intelligenza’”. Secondo Ibn Paquda la conoscenza è triplice: scienza naturale, arte matematica e metafisica, che è poi la conoscenza delle cose divine, ovviamente in quest’ordine gerarchico di crescente valore. “La scienza divina – aggiunge – è necessaria per la comprensione della Torà, e abbiamo il dovere di dedicarci al suo studio per penetrarla… La sapienza della Torà poi include i doveri del corpo o scienza esteriore e i doveri del cuore o scienza interiore… quei doveri del cuore che si basano tutti sulla ragione”. Credo sia chiaro perché questo autore vada ascritto alla storia della filosofia ebraica più che alla storia della qabbalà, pur essendo la linea che le divide assai labile e, nei contenuti, spesso poco distinguibile.
A questo punto può essere istruttivo un confronto con un altro grande testo, anch’esso un must del movimento del musar, la Mesilat yesharim o Sentiero dei giusti di Moshè Chayyim Luzzatto, il Ramchal (circa sette secoli dopo). Nella prefazione leggiamo come, della maggior parte degli esseri umani che abbiano intelligenza vivace e abilità di ragionare, “alcuni si dedicano all’esplorazione della creazione e della natura; altri all’astronomia e alla geometria [le scienze dove si applica la matematica] oppure alle opere d’arte; infine c’è chi si consacra alle cose sante ossia allo studio della santa Torà”. Che significa Talmud e midrash, certo, ma soprattutto perfezionamento del servizio divino e pietà (chasidut). Da Bachyà Ibn Paquda al Ramchal, fino a rav Soloveitchik e Levinas più vicini a noi, la filosofia ebraica è da sempre attenta a non separare mai scienza e sapienza, halakhà e kawwanà, azione e motivazione, corpo e anima, esterno ed interno.
Massimo Giuliani, Università di Trento