Cristalli e specchi

Ciò che rende un pensiero effettivamente degno di essere ritenuto valido è, prima di tutto, la sua capacità di pensare se stesso. Che cosa vuole dire? Il pensiero critico contiene, al suo interno, sia l’analisi di ciò che ne costituisce l’oggetto sia l’autoanalisi. Ossia la riflessione sui tanti modi in cui si riflette su quanto ci circonda. Difficile da comprendere? No, per nulla. La capacità critica implica non solo l’esercizio di comprensione di quanto sta di fronte a noi ma, al medesimo tempo, anche la cognizione dei modi in cui esercitiamo questa facoltà. In altre parole, la “critica” non è rivolta solo all’esterno (ciò che viene fatto oggetto di una lettura problematica) ma anche all’interno (i modi, le categorie, i criteri con i quali ci si adopera per capire la realtà). Da questo punto di vista, il pensiero critico poco o nulla ha a che fare con la polemica fine a sé – atteggiamento che appartiene invece a chi deve esprimere il suo disagio rivestendolo di significati il più delle volte strumentali – mentre è l’esatto opposto di qualsiasi costrutto ideologico. L’ideologia è tale quando un sistema di significati viene cristallizzato dentro la «logica di un’idea». In una simile condizione, ogni affermazione serve a supportare l’assunto iniziale, neutralizzando qualsiasi elemento non corrispondente ad esso. Non a caso, peraltro, le ideologie hanno molto a che fare con una visione del mondo maniacale, ossessiva, ripetitiva poiché basata su una presupposizione che si presenta come «verità» a prescindere. Incontrovertibile e insindacabile. Da questo punto di vista, le ideologie sono il prodotto della secolarizzazione di una religiosità senza teologia, ovvero senza nessuna narrazione di sé (e su di sé). Conta la fede cieca, non la sua argomentazione. La critica del testo, la comprensione della varietà delle sue accezioni, così come l’analisi dei diversi significati della vita, vengono in tale modo completamente disintegrati dentro un sistema totalitario il cui obiettivo è uno solo, ovvero quello di confortare se stesso, di darsi ragione, di espellere qualsiasi elemento che non sia congruente con la propria auto-valorizzazione. Chi nutre un approccio ideologico alla realtà, non a caso, è troppo impegnato a prendersi sul serio per capire – ed accogliere – l’inevitabile ironia che le cose dell’esistenza comunque ci presentano. Per questo è spesso non solo sentenzioso, enfatico e apodittico ma anche cupo e intransigente. Nonché apocalittico. Qualcosa del tipo: «oltre l’incontrovertibile verità delle mie posizioni, c’è solo la catastrofe». Oggi, l’ideologia corrente è quella che falsifica il discorso sull’«identità» (etnica, culturale, linguistica, sociale e quant’altro). Da costrutto storico, destinato a trasformarsi nel confronto con il trascorrere del tempo, l’ideologia identitaria trasforma il comune modo di percepirsi da parte delle persone, e quindi di una comunità, in una sorta di prigione alla quale debbono consegnarsi. L’identità, in tale caso, muta in una sorta di entità ectoplasmatica, che attraversa il tempo e lo spazio, come se l’uno e l’altro non esistessero. A ben pensare si tratta dell’essere prigionieri di se stessi, ossia di un meccanismo infernale che sublima le nostre tante insicurezze con un falso senso di appartenenza. La storia da sempre si è incaricata di fare impietosa soluzione di questa mitologia, trasformandola in macerie. Lo ha fatto nel passato, lo farà ancora nel presente così come nel futuro. Lasciandosi alle sue spalle, un nugolo di vedove e orfani di falsi pensieri, quelli che non sanno “pensarsi”.

Claudio Vercelli