Storie di Libia – Rahmin Buhnik

Rahmin, ebreo di Libia. Sua madre era molto osservante e aiutava le ragazze più povere organizzando per loro le mitzvot, il padre aveva molte attività e di conseguenza molti contatti con gli arabi e amici arabi molto potenti. D’altro canto spesso accadeva che, semplicemente per il fatto di essere ebrei, si potesse essere caricati dalla polizia per le strade di Tripoli e trattenuti in caserma senza motivo. Le ragazze evitavano di uscire per la strada perché gli arabi potevano palpeggiarle e anche i ragazzi dovevano sopportare questi soprusi. Era buona regola uscire in gruppo per difendersi. Una ragazza molto bella durante una delle loro passeggiate fu molestata da un arabo e un ebreo lo aggredì per difenderla ed ebbe la meglio. C’erano molti ebrei che proteggevano gli altri come Mino Meknagi, ma i più subivano le angherie per paura di ulteriori soprusi. Il quotidiano era molto faticoso per gli ebrei di Libia, e negli ultimi anni una legge aveva imposto la regola che ci dovesse essere in ogni azienda un socio arabo con quote al 51%. Rahmin racconta che, recandosi all’ufficio dell’energia elettrica, aveva assistito ad una scena che descrive perfettamente la situazione. Un arabo discuteva con un altro in merito al fatto che avesse sbagliato a staccare senza motivo la corrente ad un italiano e gli diceva: “Non è mica ebreo, è un italiano, devi riattaccarla!” Quelle parole lo fecero ragionare su quale fosse realmente la loro condizione di cittadini dhimmi: pur provando tanta rabbia non potevano mai esprimerla. Quando volevano partire solo per ottenere il visto sul travel document dovevano aspettare molto tempo prima dell’appuntamento nell’ufficio di competenza. Lunghe attese e interrogatori sul perché del viaggio, con ritardi nella consegna del documento senza motivo. Il 5 giugno del 1967 un’orda di arabi urlava per le strade incendiando i negozi. La porta della casa era molto robusta ma il fumo riuscì ad entrare e per non soffocare si spostarono al piano superiore dove rimasero alcuni giorni. Un arabo, guardiano di un loro cantiere, portava da mangiare ma poi fui minacciato e non potè più venire. All’epoca era usanza fare abbondanti scorte di cibo e quindi di fame non erano destinati a soffrire. Furono avvisati dalla polizia che gli fu concesso di preparare i bagagli e andare in Italia. Furono accompagnati all’aeroporto con un taxi e una camionetta della polizia. Rahmin riuscì a portare con sé dei libri antichi di preghiera. Un amico cattolico si era occupato di acquistare biglietti di prima classe utilizzando degli assegni che era andato a prendere in ufficio. Arrivarono a Roma e ci fu un incendio alla stazione e loro si spostarono in un albergo altrove per non sentire l’odore acre del fumo. Quell’odore legato agli incendi di Tripoli che ancora resta impresso nella memoria indissolubilmente.
A Roma Rahmin incontrò la ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie che aveva conosciuto a Tripoli. Di Tripoli ricorda le molte festicciole e vita nei circoli ma sempre con ebrei, mai con arabi. Ha tramandato momenti belli e momenti brutti della sua vita in Libia, ma non è rimasto traumatizzato dal doverla lasciare. Era legato alla Libia da interessi economici ma viverci era veramente difficile. Ritiene che sia importante tramandare le tradizioni, specialmente quelle legate all’ottima cucina tripolina. Riguardo al trauma sofferto del pogrom ritiene che sia grande capacità degli ebrei quella di lasciarsi il passato alle spalle con l’aiuto della fede e dar prova di grande resilienza, soprattutto per i più giovani, mentre per gli anziani accettare di dover abbandonare il paese in cui sono nati fu molto più difficile. Gli ebrei di Libia hanno dato un input notevole all’economia italiana.
La famiglia di Rahmin si trova in diversi paesi e lui si sente a casa a Roma al 50% e a Tel Aviv per l’altro 50%. Pur sentendosi perfettamente integrato a Roma spera di poter andare a vivere in Israele da pensionato. In merito a lottare per il risarcimento ritiene sia una causa persa e comunque una battaglia che dovrebbero fare governi potenti, non i singoli individui. Riguardo al preservare sinagoghe e cimiteri ritiene che sarebbe doveroso come testimonianza storica, ma non crede che i libici siano predisposti ad accettarlo perché le brevi dominazioni italiane e britanniche non sono bastate a rendere più aperto il popolo libico, come è invece avvenuto in paesi come il Marocco e la Tunisia in cui le dominazioni occidentali sono state più lunghe. Riguardo all’importanza di costruire un monumento a memoria del pogrom ritiene che sarebbe bellissimo ma che sarebbe destinato ad essere dissacrato. Rahmin ritiene che se non fosse avvenuto il pogrom la comunità ebraica di Libia sarebbe stata comunque destinata ad estinguersi, perché i giovani non desideravano restarci e si muovevano per andare a studiare in Europa. Il trauma di essere stato cacciato per Rahmin si è tradotto in una vera e propria liberazione. Nulla conta di più della libertà di dire quel che si vuole senza essere picchiati o incarcerati! In Italia può essere ebreo e dirlo apertamente e davanti alla sinagoga una camionetta di soldati protegge la minoranza ebraica da eventuali attentati. La cultura tripolina può insegnare alle altre culture prima di tutto l’assoluto attaccamento alla famiglia e la fedeltà verso di essa, così come il rispetto delle festività e delle nostre tradizioni. Può insegnare l’orgoglio di essere ebrei senza dover subire umiliazioni e ingiustizie.

Clicca qui per rivedere l’intervista

(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(1 novembre 2021)