Periscopio – Dante e la Giustizia

Abbiamo annunciato, nel nostro intervento di mercoledì scorso, che avremmo affrontato tre distinte questioni, che appaiono preliminari per un corretto inquadramento della visione di Dante riguardo al destino del popolo ebraico: la concezione dantesca della giustizia; la posizione del poeta di fronte all’idea della punizione collettiva; il suo atteggiamento nei confronti del concetto di mistero.
Rinviando alle prossime settimane il secondo e il terzo problema, credo che sia importante ribadire, riguardo al primo punto, il valore assolutamente centrale e basilare che, nel pensiero del fiorentino, assume l’ideale della giustizia. Come abbiamo avuto modo di annotare in altra occasione, la sua visione di tale valore appare assai distante da una certa idea cristiana di ‘misericordia’ (intesa, talvolta, come facile indulgenza, rapido perdono, invito all’oblio del male arrecato), più volte emergente, com’è noto, da fonti di vario tipo e di diversa epoca, mentre risulta pregna del senso di urgenza, di imperatività della giustizia, propria della Torah e poi (come ricordato dalla Dichiarazione d’Indipendenza del rinato Stato ebraico) dei profeti di Israele.
Sulla porta dell’Inferno è ricordato che il mondo ultraterreno è stato creato per una necessità di giustizia, che ha spinto il Signore alla sua realizzazione: “Giustizia mosse il mio alto fattore” (Inf. I. 7). La natura, in tutte le sue forme (compresi Adamo ed Eva), è stata generata da un atto d’amore (Inf. I.9, Par. III. 145, XXIV. 130-132), ma il peccato originale ha reso necessario un percorso di riparazione, ossia di giustizia (Par. VI. 93), che terminerà solo con la fine dei tempi.
E certamente, se si prendono in considerazione le singole storie terrene, nonché i tormenti, le speranze e le estasi sovrannaturali dei tanti spiriti incontrati nelle tre Cantiche, vediamo che essi sono giudicati, puniti, emendati e premiati, tanto dal giudizio umano quanto da quello divino, innanzitutto per la loro ottemperanza o disobbedienza a tale valore supremo.
La formidabile fantasia di Dante gli permette di prevedere, come abbiamo altra volta notato, con straordinaria forza di veggente, il linguaggio del cinema e della televisione, facendogli descrivere, nel decimo Canto del Purgatorio, tre “quadri viventi”, i cui personaggi si muovono e parlano: e il più noto dei tre rappresenta la celebre scena in cui l’imperatore Traiano, alla testa del suo esercito, in marcia per la guerra, viene fermato da un’umile vedovella, che gli chiede di non partire senza aver prima aver dato riparazione all’uccisione di suo figlio (“Segnor, fammi vendetta/ di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”). Lo farò al mio ritorno, risponde il principe. E se non torni?, obietta la donna. Lo farà il mio successore, risponde ancora il condottiero. Ma se sarà così, insiste l’interlocutrice, egli avrà assolto ai suoi obblighi, ma tu avrai mancato ai tuoi (“L’altrui bene/ a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?”). Al che il potentissimo imperatore obbedisce, e si inchina umilmente di fronte al suo inderogabile dovere: “ei conviene/ ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:/ giustizia vuole e pietà mi ritiene” (Purg. X. 73-93). Il dovere di rendere giustizia viene prima di quello militare, e la ‘pietà’ evocata è il contrario della commiserazione: è la ‘pietas’ latina, la considerazione dei bisogni del prossimo e della conseguente necessità di relazione: la stessa ‘pìeta’ verso il vecchio padre che Ulisse non volle rispettare (Inf. XXVI.24). Il re di Itaca, infatti, è dannato, mentre Traiano, pur pagano, ha miracolosamente accesso al Paradiso (dove Dante lo incontrerà: Par. XX. 43-45), per il suo altissimo senso della giustizia.
Il primato assoluto di tale valore rende Dante molto vicino (sul piano dell’etica, in quanto, su quello teologico, le differenze restano incolmabili) ai principi fondanti dell’ebraismo: molti delle mitzvòt mosaiche relative alla condotta nei confronti degli altri esseri umani (il divieto di rubare, di rendere falsa testimonianza, di tendere frode, di desiderare cose altrui, l’obbligo di riparare i danni, di dare soccorso allo straniero, al povero, all’orfano, alla vedova, al levita, di trattare con riguardo il servo, la prigioniera ecc.) non sono altro – come già abbiamo notato – che delle pratiche e determinate specificazioni del generale dovere di agire sempre secondo tzèdek, giustizia. E la realizzazione concreta dello tzèdek, la cd. tzedakah, non è, come spesso erroneamente si sente o si legge, in alcuni contesti, un atto di “compassione” o di “misericordia”, ma solo l’adempimento di un preciso dovere. Tale obbligo grava sull’uomo durante l’intero arco della sua esistenza, e non ha mai fine: non a caso la parola tzèdek è ripetuta due volte nel noto verso del Deuteronomio (tzèdek, tzèdek tirdòf, “la giustizia, la giustizia seguirai” [16.20]). L’uomo non può mai illudersi di avere realizzato la giustizia, perché, una volta adempiuto tale dovere, esso resta ancora e ancora da cercare e perseguire. Solo nell’era messianica la giustizia potrà pienamente dirsi realizzata.
E il dovere della tzedakah incombe in primo luogo sugli uomini che abbiano particolari responsabilità civili di comando, scelta e decisione, come eloquentemente attesta il verso di apertura del libro della Sapienza: “Diligite iustitiam, qui gubernatis terram”. E, nel cielo di Giove, l’aquila di Roma prende forma proprio dall’ultima lettera (M) di questa frase (Par. XVIII. 91-93 = Sapienza 1.1): la giustizia deve essere realizzata dall’uomo e dalla sua monarchia, ma ha una natura divina (Par. XVIII. 115-117). La lettera M è la prima della parola “monarchia”, e l’ultima della menzionata frase biblica: è solo dall’assolvimento di tale compito che il potere terreno riceve la sua legittimità. La gloria dell’aquila di Roma deriva dalla giustizia dell’impero (“giusto e pio”: Par. XIX. 13), regno terrestre la cui virtù si amplifica e sublima nel regno celeste del Paradiso (“giustissimo e pio”: Par. XXXII. 117, Par. VI. 121-122).
I gesti degli uomini devono essere giudicati, sempre, dagli uomini e da Dio, e non possono mai restare, nel bene come nel male, senza conseguenze. E, se il giudizio umano è fallace, quello divino è infallibile: “auctor iuris homo, iustitiae Deus”. È questo il messaggio fondamentale della Commedia: dovere, responsabilità e giustizia. Un messaggio in piena consonanza con lo spirito biblico.
Ma chi è chiamato a rispondere della colpa? Solo ed esclusivamente chi l’ha commessa? O la sua responsabilità può ricadere anche su altri soggetti?
È la questione, quanto mai controversa e delicata, della cd. responsabilità collettiva, su cui cercherò di dire qualcosa mercoledì prossimo.

Francesco Lucrezi