Matti e Angeli, due famiglie tra i “Giusti”

Firenzuola era già da tempo la patria di un “Giusto”, don Leto Casini. Un prete coraggioso che fu tra i protagonisti della rete di assistenza agli ebrei perseguitati che operò in Toscana. Sul muro dello Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme, saranno adesso impressi i nomi di altri quattro concittadini: Armando e Clementina Matti, Pietro e Dina Angeli. Famiglie imparentate, una comune missione: salvare gli ebrei Smulevich lì riparati in circostanze drammatiche. Uno sforzo generoso e disinteressato.
A beneficiarne Sigismondo e Dora Smulevich con i figli Alessandro ed Ester e il nipote Leone. Prima tappa a Firenzuola, dove furono ospitati dai Matti. Quindi dagli Angeli a Ponte Roncone. Quasi un anno di clandestinità, tra mille pericoli scaturiti anche dalla vicinanza con la Linea Gotica, fino all’agognata Liberazione. Un nuovo inizio possibile grazie al coraggio di chi aveva aiutato.
“Le persone che ci circondano e i loro parenti sono misericordiosi e cercano di confortarci. Provvederanno alla nostra sistemazione per l’avvenire onde cercare di salvarci. Saremo loro riconoscenti per sempre” scriverà Alessandro, nel suo diario di quei giorni. Una testimonianza chiave ai fini del riconoscimento attribuito quest’oggi ai discendenti dei “Giusti”, nel corso di una cerimonia che ha visto la partecipazione tra gli altri dell’ambasciatore israeliano Dror Eydar.
Al suo fianco, tra gli altri, il sindaco di Firenzuola Giampaolo Buti, l’assessore del Comune di Firenze Alessandro Martini, il presidente della Comunità ebraica fiorentina Enrico Fink, il presidente dell’Unione Montana dei Comuni del Mugello Philip Moschetti. Presenti inoltre in sala l’attuale rabbino capo rav Gadi Piperno e l’ex rabbino capo rav Joseph Levi. Toccanti le testimonianze dei discendenti: Ermanno Smulevich (figlio di Alessandro) e Ruben Lopes Pegna (figlio di Ester) dalla parte dei salvati; mentre dalla parte dei salvatori sono intervenuti Lisa Matti, una delle nipoti di Armando e Clementina, e Pellegrina Angeli, figlia di Pietro e Dina.
(Nelle immagini il conferimento dell’onorificenza a Pellegrina Angeli e Lisa Matti)
Di seguito la testimonianza di Ermanno Smulevich
Storia di una famiglia (e dei suoi salvatori)
Ringrazio il sindaco Giampaolo Buti, nostro padrone di casa, Lorenzo Malvezzi della società sportiva e tutti i loro collaboratori, ringrazio Dror Eidar, l’ambasciatore di Israele per la sua presenza, ringrazio le altre autorità intervenute, e, soprattutto, ringrazio voi tutti parenti e amici che siete venuti qui oggi.
Desidero rappresentare alle famiglie Matti e Angeli anche la riconoscenza di Sara e Shelley Smulevich, figlie di Leo, perché salvando il loro padre, due nuove generazioni della nostra famiglia sono nate a Melbourne in Australia.
Shelley e Sara da Melbourne insieme ai nostri cugini Rae e Martin da New York, che ci stanno seguendo in diretta in video streaming, si rammaricano di non poter essere qui con noi a causa delle restrizioni di viaggio per il Covid.
Mio nonno paterno, Sigismondo, era nato a Dzalioszyn, un paesino agricolo del sud della Polonia di 4.000 abitanti, metà dei quali ebrei, allora sotto il dominio dell’impero russo.
Erano 5 fratelli, una famiglia di condizione modesta e fin da giovanissimo mio nonno aveva imparato il mestiere di sarto.
Nel 1914 fu arruolato nell’esercito russo e un anno dopo fu fatto prigioniero dagli ungheresi e imprigionato vicino alla città di Fiume, in Istria, che allora dipendeva dalla corona ungherese.
Liberato nel 1918, rimase a Fiume dove iniziò a esercitare il mestiere di sarto. Lì conobbe mia nonna Dora, un’ebrea ungherese, si sposarono e nacquero mio padre Alessandro e mia zia Ester.
Nel 1924 Fiume fu annessa all’Italia e ottennero la cittadinanza italiana.
L’attività di mio nonno prosperò, aprì una sartoria sul corso principale, acquistò una casa e nel 1933 chiamò da Dzalioszyn a coadiuvarlo il nipote Leo.
Una vita medio-borghese, moderatamente benestante, mantenendo sempre un basso profilo politico.
Poi nel 1938 arrivarono le leggi razziste, alunni e insegnanti ebrei buttati fuori da tutte le scuole di ogni ordine e grado, dalle università, estromessi dal lavoro, dal commercio, dal mondo della cultura, dalla pubblica amministrazione. Insomma emarginati dalla vita civile.
Fu anche revocata la cittadinanza italiana agli ebrei che l’avevano ricevuta dopo il 1918 e quando nel 1940 l’Italia entrò in guerra gli ebrei apolidi furono arrestati e inviati in campi di internamento.
Mio nonno e il nipote Leo furono internati a Campagna, in provincia di Salerno, e costretti a vivere in condizioni malsane.
Da Campagna mio nonno riuscì a farsi trasferire prima a Firenze, poi a Prato, come internato libero, cioè con obbligo di firma quotidiano, come i delinquenti comuni, senza potersi mai allontanare dal perimetro locale.
Quando il 25 luglio del ‘43 cadde il fascismo, con la guerra che continuava, mio nonno ebbe la straordinaria intuizione di prevedere che di lì a poco la situazione per gli ebrei sarebbe peggiorata.
Lui non poteva allontanarsi da Prato perché internato, così nell’agosto del ‘43 mandò mia nonna ad affittare una stanza a Firenzuola a casa della famiglia Matti. La stanza gliela avevano trovata i coniugi Barta, due ebrei fiumani internati a Firenzuola con i quali era rimasto in contatto.
Subito dopo l’8 settembre e l’inizio dell’occupazione dell’Italia da parte dei tedeschi, mio nonno, mia nonna, i figli e il nipote Leo fuggirono a Firenzuola, trovando rifugio dapprima a casa della famiglia Matti e, pochi mesi dopo, quando la situazione a Firenzuola si fece più pericolosa, a casa degli Angeli a Ponte Roncone.
Nostro padre, fin da piccoli, ci aveva raccontato dei Matti e degli Angeli, che lui ricordava sempre con gratitudine, narrandoci qualche episodio di quando era nascosto.
Ricordo come alla fine degli anni 50, avevo 8-9 anni, in occasione della Pasqua, andavamo tutti a Firenzuola a fare gli auguri alla famiglia Matti.
Arrivavamo dopo la fine della messa accolti da don Renato, credo fosse la parrocchia di Cornacchiaia, e poi nello stesso pomeriggio ricordo una merenda all’aperto con le famiglie Matti e Angeli, sul greto di un torrente, non so se era a Ponte Roncone o forse a le Ca’ di Sotto.
Nello stesso periodo cade il Pesach, la Pasqua ebraica, che celebra l’uscita degli ebrei dall’Egitto.
La cena pasquale con il pane azzimo è preceduta e seguita dalla lettura della Haggadah, un testo che commenta gli eventi dell’Esodo e ho davanti agli occhi l’immagine di mio nonno, seduto a capotavola, vestito con il kittel, la tunica bianca che gli ebrei religiosi indossano per le feste, che leggeva l’Haggadah e seduto accanto a lui, come ospite d’onore, c’era don Renato Matti in tonaca nera e kippà.
Mia sorella ed io, allora bambini, eravamo confusi, siamo ebrei cosa ci fa un prete a casa nostra per il Pesach? Diventando adulti questo ricordo ha forgiato le nostre coscienze. Eravamo ben prima dell’enciclica Nostra Aetate di papa Giovanni vicesimo terzo e dell’associazione di amicizia ebraico-cristiana, eppure questi due uomini straordinari avevano già capito l’essenza della religione: la fratellanza, l’umanità, il rispetto, l’amicizia.
Poi i protagonisti di queste vicende uno dopo l’altro scompaiono e va avanti il tran tran della vita di tutti i giorni.
Noi ebrei abbiamo però una memoria indelebile e ricordiamo in particolare chi ci ha fatto del bene nel corso della nostra storia e di generazione in generazione tramandiamo il ricordo di queste persone ai figli.
La storia dei Matti e degli Angeli era diventata quasi un mito a casa nostra. Finché una mattina d’inverno del 2017, mio figlio Adam, senza dirmi nulla, va a Firenzuola a rintracciare queste famiglie.
La bibliotecaria della biblioteca comunale lo conduce nello studio della dottoressa Matti e lì, con grande stupore ed emozione, vede appesa al muro una locandina dove era riportata una lettera che mia zia Ester aveva inviato al Comune di Firenzuola in occasione del giorno della memoria del 2005, nella quale ringraziava la famiglia Matti per avere loro salvata la vita in tempo di guerra.
Mia zia non ci aveva mai detto nulla, eppure abitava al piano di sopra al mio!
Poi mia sorella, frugando nell’armadio di mio padre, lui era morto nel 2002, rinvenne i diari che aveva scritto giorno per giorno in tempo di guerra.
Descriveva le sue vicissitudini e quello che accadeva intorno, lui nascosto nella soffitta di casa Matti durante una retata tedesca casa per casa, lui dietro le persiane di casa Matti, testimone diretto dell’attacco dei partigiani alla caserma fascista di Firenzuola, poi la fuga a Ponte Roncone sulla canna della bicicletta di Angiolino Matti, passando davanti al corpo di guardia tedesco a Porta Bolognese, la fucilazione del gestore della diga di Ponte Roncone, le fughe continue, i nascondigli, le tane lungo il torrente Rovigo.
Dalle sue descrizioni emerge come tutti i componenti delle famiglie Matti e Angeli, che erano tra loro imparentate, in più occasioni e nelle circostanze più drammatiche, rischiarono le proprie vite per salvare gli Smulevich.
Perché la zona di Firenzuola, in prossimità della Linea Gotica, era allora uno dei posti più pericolosi d’Italia per la presenza di soldati tedeschi e di milizie fasciste che presidiavano i centri abitati e che pattugliavano le zone circostanti.
In Italia, dopo l’8 settembre, era iniziata la caccia agli ebrei. Dapprima furono unità mobili tedesche di SS, spalleggiate da volenterosi italiani, fascisti e non, a compiere i primi massacri di ebrei e a effettuare le retate e le cacce all’uomo in varie città.
Poi con la nascita della repubblica sociale di Salò, italiani e tedeschi si suddivisero i compiti. Il regime con i suoi apparati, prefetture e questure, carabinieri e polizia si occupava di individuare, rastrellare e imprigionare gli ebrei, che poi consegnava ai tedeschi che gestivano direttamente i campi di Fossoli, San Dalmazzo, Bolzano e la Risiera di San Sabba a Trieste, dai quali partivano i trasporti per i campi di sterminio.
Dopo aver perso i diritti civili con le leggi razziste del 1938, ora gli ebrei erano ridotti allo stato di prede da catturare, derubare e sterminare.
Mi fa ribrezzo osservare oggi i rigurgiti di squadrismo fascista, dove farabutti in malafede, approfittando del disagio sociale, manipolano tanti ignoranti e imbecilli, cercando di minimizzare le responsabilità del fascismo.
Il fascismo fu una dittatura crudele e spietata che portò il paese alla rovina e nei confronti degli ebrei il regime fascista fu responsabile dello sterminio in Italia alla stessa stregua dei tedeschi.
Quando il regime fascista promulgò un’ordinanza di polizia, che prevedeva l’arresto degli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento, la mia famiglia era in casa dei Matti e appresero la notizia dal giornale. Terrorizzati e piangenti si abbracciarono l’un altro non sapendo più cosa fare.
Leggo ora cosa scrisse mio padre sul diario del 1 dicembre 1943: “grazie a Dio le persone che ci circondano in casa ed i loro parenti sono misericordiosi e cercano di confortarci e provvederanno alla nostra sistemazione per l’avvenire onde cercare di salvarci la vita, per la qual cosa saremo loro riconoscenti per sempre”.
Decisero di dividersi perché troppo numerosi tutti e cinque insieme: mio nonno, mia nonna e mia zia Ester si rifugiarono nella casetta di Ponte Roncone dagli Angeli, raggiunti pochi giorni dopo da Leo che aveva trovato ospitalità temporanea a casa di Umberto e Gelsumina Righini a Firenzuola; mio padre restò a casa dei Matti trasferendosi, per sua maggiore sicurezza, nella stanza dei loro figli.
Per lui iniziarono sette mesi d’incubo: rinchiuso in una stanza dove consumava anche i pasti, trascorreva le giornate riportando le sue riflessioni sul diario e leggendo i libri che gli procurava Renato Matti.
Non usciva mai dalla stanza per paura di incontrare vicini o conoscenti venuti in visita dai Matti. Fece una eccezione il giorno di Natale del 1943 quando fu invitato in cucina a condividere il pranzo con tutta la famiglia Matti e mio padre usò toni commossi per rimarcare sul diario la loro generosità e bontà.
Poi alla fine anche lui dovette scappare a Ponte Roncone.
Idealmente, vorrei dedicare le onorificenze di oggi non solo ai figli di queste due coppie, ma anche a Umberto Righini, sempre pronto ad aiutare i miei nei momenti di pericolo, ad Ancilla Donnini che nascose mio padre e il cugino Leo in una grotta in cima ad una montagna sopra la località la Spiaggia dove abitava e poi, arrampicandosi, portava loro il mangiare ancora caldo e a Maria Rossetti che ospitò gli Smulevich a casa sua a Le Ca’ di Sotto negli ultimi mesi prima della liberazione.
Alla pari dei Matti e degli Angeli, anche altre famiglie di Firenzuola aiutarono e nascosero ebrei perseguitati, nonostante questo le esponesse a rischi gravissimi. Purtroppo non ci sono più testimonianze dirette per promuovere la loro causa allo Yad Vashem.
Come i coniugi Schӧnmann, anch’essi ebrei fiumani, dapprima ospitati dalla famiglia di Valeriano Batistini, poi da quella del farmacista, il dott. Guglielmo Zini, che li nascose nella cantina della farmacia e quando Firenzuola fu rasa al suolo dai bombardamenti del 12 settembre 1944, gli Schӧnmann, emersero incolumi dalle macerie della farmacia.
E come Giuseppe Ventura con la moglie Amalia Polacco e il figlio Edoardo, che furono nascosti da Adolfo e Chiarina Brunetti nella loro casa in località Alpe di Casetta di Tiara.
Desidero concludere con un ricordo di mio padre: era un pomeriggio d’estate del 2002 e il mio papà stava per lasciarci. Era sempre lucidissimo e sereno come lo era stato nei mesi di malattia.
Mio padre iniziò a parlarci di Firenzuola, sembrava un fiume in piena. Evidentemente si rendeva conto di essere alla fine e voleva tramandarci i suoi ricordi. Andò avanti per più di un’ora raccontandoci tanti episodi che non conoscevamo.
A un certo punto s’interruppe commosso dicendo “non ho fatto abbastanza per ringraziarli”.
Ebbene, oggi il cerchio si chiude e con immensa gioia concludo con un’antichissima benedizione ebraica.
Benedetto sii Tu, o Signore nostro Dio, Re dell’Universo, Tu che ci hai mantenuto in vita, ci hai sostenuto e ci hai fatto arrivare fino a questo momento.
Amen
(Nelle immagini: la famiglia Smulevich, in primo piano, durante l’internamento a Campagna; una foto della famiglia Matti)
Ermanno Smulevich
Di seguito la testimonianza di Ruben Lopes Pegna
Donne e uomini straordinari
Saluto e ringrazio S.E. l’Ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar, il sindaco di Firenzuola Giampaolo Buti, le autorità civili, religiose e militari i discendenti delle famiglie Matti e Angeli e tutti voi che siete qui. Sono il maggiore dei 2 figli della più giovane delle persone salvate. La mia mamma, Ester, era una ragazzina di 16 anni quando, con la sua famiglia, venne qui, a Firenzuola, nell’autunno del 1943 con tanta paura addosso. Sono emozionato, perché so che la mamma avrebbe tenuto tanto affinché il riconoscimento di “Giusti tra le Nazioni” fosse dato alle persone che avevano salvato la vita a lei e alla sua famiglia. Tutto ciò, però, non sarebbe stato possibile senza il prezioso lavoro di ricerca di mio cugino Ermanno al quale anche da parte di mio fratello Massimo che è qui presente va il mio più sentito ringraziamento.
Sin da quando ero piccolo i miei genitori mi hanno raccontato, con estrema delicatezza, le esperienze da loro vissute durante la seconda guerra mondiale. Poi, quando avevo sei anni e Don Renato Matti venne a trovare i miei nonni, la mamma mi spiegò che Don Renato insieme alla sua famiglia aveva salvato lei e tutta la famiglia Smulevich. Non entrò nei particolari, però. Di quel periodo mi ha colpito un episodio che ho trovato nel testo di Giuseppe Celata “E poi la salvezza”, storie italiane di ebrei strappati alla Shoah (1943-1945).
«A quel seminarista – dice la mamma nel libro – parlando di Don Renato che aveva preso i voti nell’estate del 1944 mia madre, ovvero la mia nonna Dora, volle regalare una “Chanukkiyah” d’argento, perché ne facesse un calice per la sua “Prima messa”: lui accettò, era commosso». E aggiungo io: il calice d’argento era un oggetto che, a quei tempi, non tutti si potevano permettere. La nonna, nel contempo, si privò di un oggetto, la Chanukkiyah, al quale noi ebrei siamo particolarmente legati.
La storia dettagliata dei mesi trascorsi a Firenzuola la venni a sapere dalla mamma, quando avevo 8 o 9 anni e frequentavo la terza elementare alla scuola ebraica. Un pomeriggio in cui a casa ripetevo a voce alta le ricorrenze ebraiche, arrivato a parlare dello Zom Ghedalià, la mamma scoppiò a piangere. E mi raccontò che il 20 settembre del 1944, il giorno in cui gli alleati arrivarono a Ponte Roncone, era Zom Ghedalià, ovvero il digiuno di Ghedalià in ricordo di Ghedalià Ben Achiqam, governatore di Israele assassinato due mesi dopo la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme. Così mi illustrò nei particolari la storia sua e della sua famiglia nei mesi bui trascorsi in montagna. Insisteva la mamma soprattutto sul coraggio e l’umanità delle famiglie Matti e Angeli che avevano messo a rischio le loro vite per salvare degli sconosciuti quali erano loro. Rimasi commosso, senza parole. E non trattenni anch’io qualche lacrima, abbracciando la mamma.
Ho scoperto proprio ieri – forse me lo aveva detto anche la mamma, ma io non lo ricordo – che il giorno di Zom Ghedalià, quello della loro liberazione, coincideva con la data ebraica del compleanno dello zio Schatsi, come ho sempre chiamato il papà di Ermanno e della Giulietta. E ho pensato che, quel giorno, è come se lo zio fosse nato una seconda volta.
Sono state persone davvero straordinarie quelle che hanno salvato la mamma e la sua famiglia con coraggio ed altruismo, quello che è mancato in quegli anni terribili a tanta gente. Non c’è stata indifferenza da parte loro. Indifferenza è una parola che ripete di continuo la senatrice Liliana Segre, deportata ad Aushwitz quando aveva 13 anni, quando parla della Shoah. “Spesso – dichiarò la senatrice Segre in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 30 agosto dell’anno scorso – mi chiedono come sia potuta succedere. E io rispondo sempre con questa parola: indifferenza. Se pensi che una cosa non ti riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore”.
La mamma non smetteva mai di pensare alle famiglie di coloro che l’avevano salvata. Nell’agosto 1989, tre mesi prima della caduta del muro di Berlino, con i miei genitori e mia moglie Daniela facemmo un viaggio in macchina in Polonia, una sorta di viaggio della memoria. Sulla strada che da Varsavia portava a Cracovia ci fermammo a Dzialoszyn, il paese natale del nonno Sigi, dove vivevano suo fratello Aron, il papà del cugino Leo salvatosi a Firenzuola, con la famiglia, uccisi poi nel campo di sterminio di Chelmno. La mamma provò a chiedere in tedesco, qualcosa sulla Comunità ebraica locale e sulla sua famiglia alle persone più anziane. Ma non ebbe alcuna risposta. C’era chi fingeva di non capire. Ma c’era anche – almeno questo mi sembrava di percepire – chi preferiva non ricordare. La mamma rimase a lungo scioccata, senza parole. La sera, a cena, nel ristorante dell’albergo di Cracovia dove ci fermammo prima di recarci il giorno successivo ad Aushwitz e Birkenau, la mamma in lacrime mi prese la mano e disse: “Se anche qui ci fossero state delle persone di cuore come i Matti e gli Angeli i miei cugini sarebbero ancora vivi”.
La mamma aveva sempre in mente i suoi salvatori. Lo dimostra la lettera consegnata a Leo Temin, allora consigliere della Comunità ebraica di Firenze, in occasione della sua partecipazione a Firenzuola a una manifestazione per la Giornata della Memoria nel gennaio del 2005. Leo, che tra l’altro è zio di Rav Gad Piperno, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Firenze che è qui presente, me ne parlò, all’uscita del Tempio, nei giorni della Shivà, ovvero la settimana di lutto stretto che noi ebrei osserviamo quando se ne va un nostro caro. E la mamma – era il giugno del 2016 – se ne era andata da pochi giorni. Io non ne sapevo niente di quella lettera ma la cosa non mi sorprese affatto. Anzi sono contento che quella lettera sia stata allegata tra i documenti inviati allo Yad Va Shem per ottenere l’onoreficenza di Giusti tra le Nazioni alle famiglie Matti e Angeli che ringrazio ancora di cuore.
Tra 12 giorni la mamma avrebbe compiuto gli anni. Il riconoscimento che oggi viene consegnato da Sua Eccellenza l’ambasciatore d’Israele alle famiglie Matti e Angeli sarebbe stato per lei il più bel regalo di compleanno.
Grazie a tutti.
(Nell’immagine: uno dei nascondigli degli Smulevich a Firenzuola)
Ruben Lopes Pegna
(4 novembre 2021)